Pare quasi una beffa. Proprio nel momento in cui dopo anni in caduta libera i prestiti alle imprese ritrovano i primi timidi segnali di risveglio (+0,5% a luglio), la nuova stretta sulle regole rischia di riportare indietro le lancette. Nel momento peggiore, oltretutto, quello in cui il sistema produttivo è chiamato ad uno sforzo di investimenti senza precedenti. Innovazioni certamente indotte e facilitate dal robusto piano di incentivi fiscali legato ai beni di Industria 4.0 ma che possono partire solo continuando ad attingere al carburante del credito.
La dinamica dei tassi degli ultimi anni ha chiaramente favorito l’Italia rispetto ad altri paesi, con una discesa del costo del denaro più robusta che altrove, partendo da livelli assoluti più elevati. Come risultato, oggi tra un imprenditore italiano e il suo omologo tedesco lo spread allo sportello praticamente non esiste più.
Se a fine 2011 la distanza media era di 100 punti base a nostro sfavore, oggi il gap è praticamente azzerato (1,6 il tasso medio ad agosto in Italia, 1,38 in Germania), e per alcune tipologie, come i prestiti oltre il milione di euro, il vantaggio (sei punti base) oggi è addirittura a nostro favore.
Con un beneficio duplice per le imprese: da un lato incentivate più che in passato ad adottare piani di investimento a lungo termine, dall’altro aiutate nei conti attraverso una progressiva discesa della componente oneri finanziari in bilancio. In tre anni il tasso medio sulle consistenze dei prestiti alle società non finanziarie si è ridotto in Italia di 133 punti base, a quota 2,34%. In valore assoluto significa che lo stock di prestiti esistente costa oggi alle imprese ben 10 miliardi in meno.
Se è vero che per le aziende più virtuose il credito continuerà probabilmente a non essere un problema in prospettiva, così come non lo è ora, esiste però un’ampia zona grigia di realtà a rischio, che faticosamente cercano di emergere dalla crisi dopo anni di difficoltà.
Pure se all’interno di un trend in miglioramento, nelle regioni manifatturiere del Paese le aziende considerate “vulnerabili” (classificazione Cerved) sono quasi il 30%, a cui si aggiunge un’altra fetta tra il 12 e il 15% di realtà a rischio. Quota di imprese per nulla marginale, a cui un nuovo irrigidimento delle condizioni di credito potrebbe risultare fatale.
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