«Conosco l’Iran da prima che cadesse lo Scià. Sa che lì, oggi, quasi il 70% dell’elettromeccanica degli impianti oil&gas è italiana? E va sostituita. Gli iraniani ci cercano. Ma se non saremo in grado di garantire i contratti acquisiti da privati, regaleremo il mercato ai concorrenti».
Il pensiero dell’imprenditore varesotto delle caldaie – che preferisce l’anonimato – è, tra preoccupazione e rassegnazione, anche quello di molti ”colleghi” della meccanica, dell’engineering, della componentistica oil&gas, della chimica e delle materie plastiche, che hanno tutti una cosa in comune: non esportano sporadicamente piccole partite. Ma operano su forniture e progetti di medio-lungo periodo (oltre 24 mesi). Operazioni che non riescono ad essere finanziate dagli istituti di credito nazionali e, di conseguenza, non trovano le garanzie di assicurazione sul credito in caso di mancato pagamento.
Problemi e «credit Trump»
Un problema europeo, non solo italiano. Colpa dell’incertezza che aleggia sul Paese (che cresce del 5% l’anno ed è un pagatore puntuale). Un timore nato un anno fa con l’elezione del presidente Usa Donald Trump, che 10 giorni fa, dopo molti annunci, ha confermato la decisione di voler decertificare l’accordo sul nucleare raggiunto con Teheran nel luglio 2015 (con cui la Ue ha rimosso e gli Usa, per ora, sospeso le sanzioni). Nonostante le banche iraniane siano ormai agganciate al sistema swift e abbiano recepito le normative antiriciclaggio, il ripristino delle sanzioni renderebbe impossibile, per gli iraniani, onorare i pagamenti e, per le banche e le società di assicurazione crediti, rientrare delle esposizioni. Troppi rischi.
Non solo. È vero che le sanzioni sono sospese per le realtà finanziarie che vogliono operare con Teheran. Ma al minimo errore commesso da una banca europea in Iran, si rischia una doppia sanzione americana: quella per una violazione delle regole e ripercussioni sulla propria operatività negli Usa (mercato enormemente più importante di Teheran). Insomma, il rischio è di dover scegliere tra un Paese con cui facciamo 2,5 miliardi di interscambio con uno che ne vale oltre 50.
Dual use e black list
Non solo. Non si può esportare merce che può finire per avere un “dual use” cioè “innocenti” (per noi) valvole, turbine ma anche software e composti chimici che potenzialmente possono essere utilizzati anche nell’industria nucleare. Oltre al fatto che sono sanzionabili banche e imprese che (anche a loro insaputa) si mettano in affari con società locali in cui siano presenti, come amministratori, soci e componenti di board, cittadini iraniani inseriti in una black list perchè fortemente compromessi con il regime. E ricostruire gli organigrammi aziendali è complesso.
Banche alla finestra
Per questo il sistema bancario europeo da oltre un anno rimane alla finestra. Soprattutto dopo quello che è successo, nel 2014, a Bnp Paribas. Si dichiarò colpevole davanti a un tribunale di New York per avere fatto transazioni da miliardi di dollari con tre paesi sotto embargo, tra cui l’Iran, e fu costretta a pagare una multa da 9 miliardi di dollari.
In realtà, la Francia mostra segni di dinamismo. Ad agosto, i francesi di Renault e gli iraniani hanno firmato un contratto dal valore di 660 milioni di euro per costruire in Iran 150mila automobili l’anno. Non solo. La Bpi France – l’equivalente della nostra Sace – ha dichiarato che finanzierà progetti di investimento di società francesi in Iran dal 2018, concedendo fino a 500 milioni di euro in crediti annuali. Ma, a differenza degli italiani, può farlo perchè non ha esposizioni verso gli Stati Uniti.
«A seguito della sospensione delle sanzioni verso l’Iran – ha spiegato Sace – abbiamo ripreso a sostenere le forniture – per lo più di PMI – nel Paese con strumenti a copertura del rischio di mancato pagamento e lettere di credito emesse da banche iraniane (Mellat, Tejarat, Parsian, Sama, Bank of Industy & Mine) e confermate da banche italiane, ovviamente nel pieno rispetto del complesso quadro sanzionatorio. Si tratta di operazioni che prevedono dilazioni di pagamento inferiori ai 24 mesi per le quali sono necessari consistenti approfondimenti ai fini della compliance alle sanzioni». L’Italia, conclude Sace, è allineata alla prudenza che vige in tutta Europa e opera come gli altri suoi omologhi europei su questo tema .
Nel 2016 l’export di Made in Italy verso l’Iran è comunque cresciuto di quasi il 30% rispetto al 2015, passando da 1,2 a oltre 1,5 miliardi (mentre noi importiamo per 1 miliardo, quasi tutto greggio). Era oltre i 7 miliardi prima delle sanzioni.
Tuttavia, «il forte entusiamo ha ceduto il passo a un forte stand-by – spiega Carlo Banfi, presidente di Assopompe (Anima) e gruppo Aturia (25 milioni di fatturato e 250 addetti) –. Un po’ si lavora con Teheran. Ma quando le commesse diventano importanti e si acquisisce l’ordine nessuna banca emette lettera di credito. E se le banche non sono nelle condizioni di effettuare crediti a lungo termine anche le imprese restano al palo». «Nel 2017 ci attendevamo il boom. L’export crescerà ma al di sotto del potenziale – ammette Alessandro Grassi , presidente di Amaplast (le aziende che costruiscono macchine e stampe per materie plastiche) –. Non ci saranno problemi per chi fa vende con pagamenti per cassa. I pagamenti diretti, con bonifico, da 100-150mila euro non sono automatici ad accredito diretto. C’è un po’ di burocrazia, ma la si supera. Mentre resta quasi impossibile farsi erogare lettere di credito a 18-24 mesi».
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