Dopo l’introduzione è ancora incertezza fra i consumatori sull’obbligo di usare i soli sacchetti biodegradabili a pagamento per pesare e prezzare le merci sfuse.
Il ministro dell’Ambiente, Gian Luca Galletti, gli ecologisti e perfino il sindacato dei chimici Filctem difendono la normativa, che invece sui social network viene usata per mettere in difficoltà quella parte del mondo politico che l’ha promossa e approvata.
L’ex premier Matteo Renzi ha replicato su Facebook affermando che il Governo ha solo attuato la normativa europea.
La norma riguarda due tipi di imballaggi. Primo tipo, i sacchetti dati al consumatore per l’asporto dei prodotti dal punto vendita. Secondo tipo di imballaggiinteressati dalla direttiva: fra gli imballaggi per alimenti sfusi o a contatto diretto con i cibi (ortofrutta, macelleria, gastronomia, pescheria) i sacchettini leggerissimi con spessore sotto i 15 micron.
L’obiettivo è difendere l’ambiente.
In effetti i mari dei Paesi in cui non si raccoglie e non si ricicla la plastica sono intasati di rifiuti, come gli oceani su cui si affacciano Paesi meno sensibili all’ambiente. Anche se danno un contributo modesto all’inquinamento, anche i sacchetti ultraleggeri oggetto della normativa sono una presenza che sporca i mari, contaminati per esempio dalle temutissime microplastiche sviluppate soprattutto dalle fibre tessili rilasciate dalle lavatrici nei lavaggi e dal polverino di gomma degli pneumatici che si usurano sull’asfalto, ma sviluppate anche da cosmetici, bastoncini cotonati e altri rifiuti. I dati sull’inquinamento dei rifiuti nel mare sono riportati più sotto.
La normativa europea dice cose diverse
La direttiva europea introduce l’obbligo di limiti ai sacchetti della spesa simili a quelli che esistono da anni in Italia, dove le buste del supermercato sono biodegradabili e a pagamento.
L’Italia anni fa era stata messa sotto accusa proprio per avere imposto i sacchi biodegradabili, e la concorrenza estera denunciò la normativa italiana per il limite posto alla libera circolazione delle merci di produttori stranieri sul mercato italiano.
Ma dopo anni di contenziosi anche l’Europa si era adeguata agli standard italiani e aveva varato una direttiva modellata sull’esperienza italiana.
Nelle direttive (a differenza dei regolamenti europei, che entrano in vigore in modo automatico senza bisogno di essere recepiti) ciò che è vincolante per tutti gli Stati è solo l’obiettivo (in questo caso, la riduzione dell’inquinamento da
sacchetti) e non impone gli strumenti (ogni Stato gode di discrezionalità nella scelta dei mezzi per raggiungere l’obiettivo).
Così la direttiva 2015/720 (clicca qui per leggere la direttiva 2015/720) è molto generica e dice che i Paesi membri devono ridurre l’uso di sacchetti di plastica, e possono farlo in diversi modi, come per esempio dandosi obiettivi nazionali di riduzione, oppure con strumenti economici, o ancora con restrizioni alla vendita (purché le restrizioni siano proporzionate e non discriminatorie né costituire restrizioni alla libera circolazione delle merci).
La direttiva uniforma anche lo standard tecnico europeo armonizzato (EN 13432), in modo che sia uguale per tutti il metodo per certificare se una plastica è biodegradabile.
Infine, i Paesi avrebbero dovuto recepire la direttiva entro il 27 novembre 2016.
Alcuni Paesi si sono mossi in autonomia: la Francia ha normato i sacchettini ultraleggeri dal 1° gennaio 2017 in modo simile all’Italia.
Ma l’Italia, che aveva anticipato la direttiva e sperimentato le migliori metodiche, era in infrazione perché non l’aveva recepita con un atto formale.
L’Europa permette di escludere le sportine ultraleggere
La direttiva 2015/720 non impone regole sui sacchetti ultraleggeri, al contrario.
Dice la direttiva: «Gli Stati membri possono scegliere di esonerare le borse di plastica con uno spessore inferiore a 15 micron («borse di plastica in materiale ultraleggero») fornite come imballaggio primario per prodotti alimentari sfusi».
Cioè per l’Europa, i sacchetti superleggeri per la pesata e la prezzatura dei prodotti sfusi possono essere non biodegradabili.
Qualche dettaglio. La direttiva 2015/720 ha introdotto a carico degli Stati membri obblighi finalizzati alla «sostenuta riduzione dell’utilizzo di borse di plastica in materiale leggero», cioè quelle destinati all’asporto delle merci dal punto vendita e con uno spessore inferiore a 50 micron.
Il rischio evitato di infrazione
La legge italiana in vigore dal 2012 prevedeva che in tutti gli esercizi di vendita si potessero dare ai consumatori borse riutilizzabili e borse asporto merci biodegradabili e compostabili. Non prevedeva il pagamento obbligatorio, introdotto ora; era quindi una scelta del singolo punto vendita decidere se far pagare il sacco.
Inoltre nel febbraio 2016 la Commissione Europea aveva inviato all’Italia una richiesta di chiarimenti (Caso EU Pilot 8311/16/GROW) sui divieti italiani di vendita dei sacchetti di plastica (divieti confermati dalla nuova legge 123/2017) chiedendo se questi limiti sono commisurati agli obiettivi, siano giustificati, e poporzionati «al fine di valutare se tali misure possano ritenersi giustificate da motivi di interesse generale, ai sensi dell'articolo 36 del Trattato sul Funzionamento dell'Unione europea».
L’Italia ha avuto un dibattito parlamentare lungo e complicato che non ha permesso di recepire la direttiva entro il novembre 2016 e che aveva portato a un dibattito serrato di documenti tra Roma e Bruxelles.
Così la Ue aveva aperto una procedura di infrazione nei confronti dell’Italia («Procedura di infrazione 2017-0127 Mancato recepimento della direttiva 2015/0720/UE che modifica la direttiva 94/62/CE per quanto riguarda la riduzione dell'utilizzo di borse di plastica in materiale leggero») per la mancata notifica della normativa tecnica (profilo procedurale) e per il bando
dei sacchi (profilo sostanziale) in quanto all’epoca la direttiva imballaggi 94/62/CE — adottata più di venti anni orsono e che non si occupava espressamente di sacchetti — non esplicitava la possibilità di vietare tali prodotti.
Con la legge approvata in agosto non c’è stato alcun contenzioso perché non si è mai arrivati in Corte di giustizia e la Commissione di Bruxelles ha chiuso le procedure d’infrazione.
Inoltre la Ue si era impegnata a valutare se fosse stato il caso di aggiungere misure specifiche di riduzione degli imballaggi ultraleggeri entro 18 mesi dall’entrata in vigore della direttiva del 2015, ma gli anni sono passati senza divieti aggiuntivi.
La legge italiana di agosto
In estate il Parlamento ha approvato il decreto Mezzogiorno (clicca qui per leggere la legge di conversione 3 agosto 2017, n. 123) nel quale all’articolo 9-bis è stato aggiunto il recepimento della direttiva 720 che, nella legge italiana, impone dal 1° gennaio l’uso esclusivo di plastica biodegradabile per i sacchettini “ultraleggeri” con i quali si pesano e si prezzano i prodotti sfusi come pane, ortaggi, frutta.
In sostanza la norma approvata dal Parlamento italiano nell’agosto scorso ha recepito la direttiva introducendo queste limitazioni:
- divieto di commercializzare di borse di plastica fornite ai consumatori per il trasporto di merci e prodotti con spessori variabili in ragione delle tipologie di maniglia e di esercizio commerciale, anche quelle con spessore assai superiore a quelli indicati dalla direttiva 2015/720/UE (50 micron);
- nessun limite nell’uso di sacchetti di plastica biodegradabile date ai consumatori per l’asporto di merci e prodotti, le quali che vengono sottratte ai divieti previsti per la plastica;
- viene esteso a tutte le borse date ai consumatori per l’asporto di merci e prodotti il divieto di cessione gratuita, indipendentemente dallo spessore;
- per un’altra categoria di imballaggi, cioè i sacchi a contatto diretto con i cibi che non servono per l’asporto bensì per l’igiene oppure per i cibi sfusi, dice che quelli con spessore inferiore ai 15 micron devono essere a pagamento e devono essere biodegradabili e compostabili, con un contenuto minimo di materia prima rinnovabile con percentuali incrementate nel corso del tempo.
Riguarda i sacchetti della spesa e ora anche quelli per l’ortofrutta
In altre parole le nuove regole riguardano
- le «borse di plastica: borse con o senza manici, in plastica, fornite ai consumatori per il trasporto di merci o prodotti», e servono solamente ai consumatori per portare via dal negozio le merci e i prodotti dal negozio (esempio: il saccone del negozio di abiti),
- le «borse di plastica in materiale leggero: borse di plastica con uno spessore della singola parete inferiore a 50 micron fornite per il trasporto» e servono solamente ai consumatori per portare via dal negozio le merci e i prodotti dal negozio (esempio: i sacchetti della spesa),
- le «borse di plastica in materiale ultraleggero: borse di plastica con uno spessore della singola parete inferiore a 15 micron richieste a fini di igiene o fornite come imballaggio primario per alimenti sfusi» e non servono per portare via dal negozio le merci e i prodotti ma servono come imballaggio a contatto diretto dei cibi (esempio, i sacchettini per pesare e prezzare l’ortofrutta).
Dipende dallo spessore
Il comma 2 in sostanza divide in due famiglie gli imballaggi per l’igiene o quelli che vengono a contatto con i cibi sfusi:
- quelli sottilissimi (spessore sotto i 15 micron) devono essere a pagamento e biodegradabili
- quelli più spessi invece (che non ricadono nella normativa sui sacchetti di plastica, che sono esclusivamente quelli per il trasporto delle merci) restano come prima, cioè possono essere donati e non riciclabili.
L’Assobioplastiche (associazione dei produttori di biopolimeri) afferma che tutti i sacchetti a contatto degli alimenti, qualunque sia lo spessore, devono essere sempre biodegradabili e a pagamento(clicca qui per leggere).
La parte della normativa che interessa le varie borse di plastica impone nuove specifiche tecniche che riguardano i produttori e i commercianti, i quali se danno al cliente un sacco per il trasporto della merce venduta devono segnarne il prezzo sullo scontrino, e coinvolge in misura marginale i consumatori finali.
Quali sacchetti (ortofrutta) e quali no (pane, mozzarella)
La norma sugli ultraleggeri riguarda esclusivamente (legge 3 agosto 2017 n. 123, comma 1 dd-quinquies) le borse di plastica in materiale ultraleggero cioè «borse di plastica con uno spessore della singola parete inferiore a 15 micron richieste a fini di igiene o fornite come imballaggio primario per alimenti sfusi».
Quindi la norma sugli ultraleggeri si applica esclusivamente alle borse (non i foglietti trasparenti che il salumiere deposita sulle fette di prosciutto né le vaschette rigide), di plastica (non carta oleata), a parete sottile meno di 15 micron (non la plastica grossa della mozzarella né la plastica forata del pane), usata fine di igiene (non i sacchetti per trasportare il prodotto) sui soli alimenti (non farmaci o altri beni) sfusi (non i prodotti confezionati).
Tutti gli altri sacchetti a fini igienici a diretto contatto con gli alimenti che sono di plastica più spessa o di altri materiali non sono interessati da alcun obbligo della nuova legge. Possono essere di plastica non biodegradabile e possono essere ceduti a titolo gratuito.
Attenzione ai cibi deperibili
Ovviamente la legge non dice quali specifici cibi possono venire a contatto con i sacchetti sotto i 15 micron. L’importante è che siano adatti per il contatto con gli alimenti.
Sarebbe infatti pericoloso per l’igiene o porterebbe al deperimento rapido dei cibi se si usassero a contatto diretto con prodotti molto umidi (ricotta, mozzarella, salumi, pesce, preparazioni a base di uova come l’insalata russa, alimenti oleosi) imballaggi non adatti agli alimenti, non impermeabili all’ossigeno, che cedono componenti.
Questi cibi deperibili devono continuare a essere confezionati in imballaggi specifici per alimenti, i quali servono non al trasporto bensì al confezionamento, alla conservazione, all’igiene e alla protezione dei cibi.
Questi imballaggi protettivi se più spessi di 15 micron possono continuare a essere dati a titolo gratuito.
Esempi di sacchetti non interessati da alcuna limitazione
A titolo di esempio puramente indicativo, sono fuori dalle norme sui sacchetti biodegradabili gli imballaggi di polietilene ad alta densità per alimenti spessi 18 micron, gli imballaggi per alimenti di polietilene a bassa densità spessi 35 micron (quelli della mozzarella), gli imballaggi di polipropilene microforato per il confezionamento del pane spessi 20 o 30 micron e comunque più dei 15 micron dove è la barriera di confine messa dalla legge. Sono tutti imballaggi che rientrano tra le «borse fornite a fini di igiene o fornite come imballaggio primario», cioè non «sacchetti di plastica» per il trasporto, e sono superiori ai 15 micron.
Non solo petrolio
I sacchetti ultraleggeri devono essere biodegradabili e compostabili al 100% (cioè a una certa temperatura si devono dissolvere entro un certo tempo negli impianti di produzione di compost agricolo) e devono essere composti da materie prime rinnovabili (vegetali) al 40%, mentre rimarrà il 60% di componente petrolchimica. Nel 2020 dovranno avere almeno il 50% di materie prime rinnovabili enel 2021 il 60% (il resto da petrolio).
Questo vincolo pare ritagliato attorno alla produzione italiana più diffusa di bioplastica, e stimola a migliorare le produzioni.
Ci sono tuttavia plastiche biodegradabili di origine fossile che si biodegradano in modo invidiabile, come le plastiche Pbs da acido succinico, che pur non avendo le caratteristiche indicate dalla legge hanno impatti ambientali ottimi.
Obbligatorio pagare
La legge (comma 5) impone che questi sacchetti vengano pagati dal consumatore. Non fissa alcun prezzo e non dà un costo massimo.
La norma dice semplicemente: «Le borse di plastica in materiale ultraleggero non possono essere distribuite a titolo gratuito e a tal fine il prezzo di vendita per singola unità deve risultare dallo scontrino o fattura d’acquisto delle merci o dei prodotti imballati».
Le politiche ambientali nel mondo spesso introducono con successo un pagamento, a volte piccolissimo come in questo caso, con l’obiettivo di dare un valore visibile al bene, prima in apparenza gratuito.
Il “prezzo” è un “pregio”.
Ciò induce a in consumatore comportamenti consapevoli.
Ammesso il sottocosto del sacchetto
Per evitare ai commercianti di far pesare troppo il prezzo del sacchetto sui consumatori è stato consentito con una circolare apposita di fare ricorso al sottocosto, cioè vendere a un prezzo più basso (con Iva negativa) di quanto sia costato l’approvvigionarsi.
I sacchetti per il trasporto della merce e quelli ultraleggeri per l’ortofrutta finora erano messi in bilancio dal negozio come costo, e quindi detratti dall’utile dell’azienda.
Quanto costano ai commercianti i sacchetti?
Il prezzo di mercato della plastica biodegradabile più diffusa si aggira in genere tra i 6 e i 7 euro al chilo, ma dipende da molti fattori quali il fornitore, il grossista, le dimensioni della fornitura, eventuali stampigliature sulla confezione.
Il costo del singolo sacchetto dipende dal suo peso, se è l’ultraleggero per l’ortofrutta sono i pochi grammi che corrispondono ai pochi centesimi di euro, se sono i sacchi della spesa più spessi e pesanti il costo sale.
Un negozio (non le catene di grandi distribuzione, che hanno dimensioni d’acquisto diverse) paga dal grossista i sacchettini piccoli (tipo farmacia) in genere tra 1,5 e 2 centesimi al pezzo più Iva, e i sacchetti più grandi (tipo spesa) in genere tra 4 e 5 centesimi più Iva.
Affinità e divergenze tra la legge e il ministero sul pagamento
Gli interpreti della legge sono divisi. Vanno pagati sempre tutti i sacchetti, o solamente alcuni?
La legge del 3 agosto che obbliga la biodegradabilità e il pagamento dei sacchetti ultraleggeri dice:
1. Fatta salva comunque la commercializzazione delle borse di plastica biodegradabili e compostabili, è vietata la commercializzazione delle borse di plastica in materiale leggero, nonché delle altre borse di plastica non rispondenti alle seguenti caratteristiche:
(segue un elenco di diverse tipologie di borse riutilizzabili ad alto spessore non biodegradabili)
2. Le borse di plastica di cui al comma 1 non possono essere distribuite a titolo gratuito e a tal fine il prezzo di vendita per singola unità deve risultare dallo scontrino o fattura d'acquisto delle merci o dei prodotti trasportati per il loro tramite.
Il comma 2 è molto ambiguo perché dice che vanno pagati i sacchetti previsti dal comma 1, il quale vieta tutti i tipi di sacchetti da asporto merci tranne i biodegradabili e poi parla dei sacchi di grosso spessore riutilizzabili.
Quindi, quali sacchetti vanno pagati? Tutti i sacchetti da asporto o solamente quelli di grosso spessore riutilizzabili su cui si sofferma il comma 1?
Il ministero dell’Ambiente ha diffuso una circolare secondo la quale vanno pagati sempre e comunque i sacchetti dati al cliente per l’asporto delle merci acquistate.
Scrive la circolare (clicca qui per leggere il testo originale e integrale del ministero): «L’art. 226 bis, comma 2, D.Lgs. n. 152/2006 dispone che le borse di plastica biodegradabili e compostabili, nonché le borse di plastica riutilizzabili “non possono essere distribuite a titolo gratuito e, a tal fine, il prezzo di vendita per singola unità deve risultare dallo scontrino o fattura d’acquisto delle merci o dei prodotti trasportati per il loro tramite”. Parimenti, l’art. 226-ter, comma 5 del medesimo D.Lgs. n. 152/2006 dispone che le borse ultraleggere, “non possono essere distribuite a titolo gratuito e, a tal fine, il prezzo di vendita per singola unità deve risultare dallo scontrino o fattura d’acquisto delle merci o dei prodotti imballati per il loro tramite”. L’obbligo di pagamento delle borse ultraleggere, che trova la sua ratio nell’esigenza di avviarne una progressiva riduzione della commercializzazione, decorre dal 1° gennaio 2018».
I sacchettini sono usa-e-getta (forse)
I sacchettini non per il trasporto delle merci dal negozio bensì per l’igiene e la protezione a diretto contatto con il cibo possono essere riusati in mille modi, soprattutto per raccogliere i rifiuti organici da destinare al compostaggio, come già avviene per le borse della spesa, che sono già biodegradabili.
Ma questi sacchettini ultraleggeri non possono essere riusati per comprare altri prodotti alimentari sfusi, fatte salve le nuove indicazioni che arrivano dai ministeri dell’Ambiente e della Salute (clicca qui per leggere l’articolo).
È vietato il riutilizzo per lo stesso fine per cui sono stati prodotti e venduti, cioè contenere alimenti sfusi a contatto diretto.
Ecco il comma 3: «Sono fatti comunque salvi gli obblighi di conformità alla normativa sull’utilizzo dei materiali destinati al contatto con gli alimenti adottata in attuazione dei regolamenti (UE) n. 10/2011, (CE) n. 1935/2004 e (CE) n. 2023/2006, nonché il divieto di utilizzare la plastica riciclata per le borse destinate al contatto alimentare».
Significa che per l’igiene degli alimenti che vengono a contatto, l’imballaggio deve essere vergine e non deve provenire dall’esterno del negozio.
È meglio usare la carta
Dal punto di vista ambientale spesso è consigliabile l’uso della carta in sostituzione della plastica, ma pochi supermercati fanno ricorso a questi imballaggi per la pesata e la prezzatura degli alimenti sfusi perché non consentono al cassiere di vedere in trasparenza se il contenuto corrisponde all’etichetta.
Invece può continuare il tradizionale confezionamento nel foglio di carta fermato con il nastro adesivo (come in farmacia) e, per il trasporto, come da sempre il cliente può rifiutare il sacchetto e può portare con sé la merce acquistata in qualsiasi modo desideri, come borsa, borsetta, tasca, carrello, sacco, sottobraccio, saccone e contenitore.
Un impianto di compostaggio protesta: le bioplastiche non si degradano
Diversi impianti di trattamento del compost lamentano la scarsa biodegradabilità delle plastiche biodegradabili. Problemi di inadeguatezza degli impianti, dicono molti.
In Italia ci sono 261 impianti di compostaggio e 46 di anaerobiosi ed esiste uno studio del comportamento dei sacchi biodegradabili e compostabili negli impianti italiani pubblicato nel 2017 che ha verificato come i sacchi di bioplastiche si degradano secondo i parametri previsti.
Ma non tutte le bioplastiche trovano le condizioni ideali e gli impianti adatti a una rapida dissoluzione.
Per esempio l’azienda di nettezza urbana di Bolzano, la Seab, avverte i concittadini: non usate i sacchetti di plastica biodegradabile, usate quelli di carta (clicca qui per leggere l’allarme della Seab di Bolzano sulle bioplastiche che non si degradano).
Ecco la nota della Seab di Bolzano:
«Sacchetti in “bioplastica”: NON adatti per l'organico a Bolzano
L'introduzione dei sacchetti “bio” a pagamento nei supermercati e la relativa corrispondenza dei media nazionali ha causato alcuni fraintendimenti e creato tanti dubbi fra i cittadini di Bolzano. Mentre in diverse città d'Italia questi sacchetti possono essere utilizzati per la raccolta dell'organico, la situazione a Bolzano è completamente diversa:
I cosiddetti “sacchetti ecologici” non sono adatti per la raccolta dell'organico a Bolzano. I rifiuti organici raccolti da SEAB devono essere forniti all'impianto di fermentazione di Lana, dove vengono trasformati in biogas e compost. Il tempo di degradazione di questi sacchi ecologici, significativamente più lungo rispetto agli altri materiali raccolti, influirebbe sull'intero processo. Inoltre, questi sacchi spesso si incastrano tra le lame del frantumatore causando dei guasti al sistema.
Per evitare eventuali multe, i cittadini di Bolzano sono invitati a utilizzare esclusivamente i sacchetti di carta forniti da SEAB. Questi sacchetti vengono distribuiti con frequenza annuale a tutte le famiglie di Bolzano e si possono inoltre ritirare gratuitamente agli sportelli SEAB di via Lancia.
In alternativa possono essere utilizzati solo sacchetti di carta per alimenti senza finestre in nylon (per esempio, quelli del pane). Altri sacchetti di carta (ad esempio le buste dei negozi di abbigliamento) non sono adatti».
In alcuni casi si paga alla pesatura, che il sacchetto ci sia o no
In genere il sacchettino per la protezione a diretto contatto con i cibi viene conteggiato alla cassa, nello stesso modo dei sacchetti per l’asporto delle merci dal negozio.
Ma in alcune catene della grande distribuzione il consumatore paga il sacchetto ultraleggero sull’etichetta di pesatura del prodotto sfuso.
In questi casi, chi non usa il sacchetto e presenta alimenti pesati ma non racchiusi (per esempio chi incolla l’etichetta sull’anguria) può essere costretto a pagare il sacchetto anche se non lo ha usato.
Finché queste catene di supermercati non adegueranno il sistema di prezzatura dei sacchettini a contatto con gli alimenti, ciò potrà rimanere un freno ai consumi consapevoli di chi concorre a ridurre gli imballaggi.
Rischi per il mercato
Potrebbero esserci effetti controproducenti sul mercato.
Per esempio, la produzione italiana ora non sarebbe adeguata alla domanda e nei giorni scorsi sarebbe stato necessario convogliare verso l’Italia la produzione spagnola e francese.
Negozi e altri consumatori si rivolgono alla carta, che è permessa e addirittura consigliata dal punto di vista ambientale.
Inoltre molti consumatori stanno respingendo dai negozianti il sacchettino a pagamento, rinunciando alla sua comodità.
Il minore uso di sacchetti di plastica è fra gli obiettivi principali della direttiva europea 2015/720, e pare che lo strumento stia conseguendo in modo mirabile l’obiettivo.
Il minore uso di sacchetti e il ricorso alla carta consegue ottimi risultati ambientali perché riduce l’uso di imballaggi ma al tempo stesso restringe il mercato, con rischi non solamente per i produttori di materia prima ma anche per le centinaia di aziende di trasformazione delle bioplastiche e di produzione dei sacchetti biodegradabili.
Accaparratori di sacchetti
Ci sono segnali che fanno sospettare un contrarsi del mercato interessantissimo dei sacchetti biodegradabili per i rifiuti umidi: c’è già chi nei supermercati accaparra a 2 centesimi il pezzo interi rotoli “ultraleggeri”.
Un rotolo di dieci sacchetti di plastica biodegradabile per il rifiuto umido e organico costa tra i 2 e i 3 euro (in genere sui 2,50-2,70 euro).
Ma dieci sacchetti di plastica biodegradabile per pesare e prezzare gli alimenti sfusi costano molto meno, circa 20-30 centesimi, un decimo. Ciò a scapito del mercato più profittevole.
Effetti ambientali contraddittori
Per evitare la noiosa procedura di pesatura e prezzatura degli alimenti, aggravata dal pagamento, molti consumatori si rivolgono a prodotti già confezionati in materiali non biodegradabili, come le vaschette di polistirolo espanso racchiuse in un film di Pvc.
Ciò potrebbe portare a un peggioramento dei rendimenti ambientali.
Benefici per il mare, dove il 53% dei rifiuti è prodotto dai bagnanti in spiaggia e il 14% dalla pesca e dalle attività marittime (fonte Arcadis-Commissione Ue): qui la nuova normativa potrà avere un effetto benefico.
Le bioplastiche a base di amido, le più note, sono tanto più velocemente degradabili quando più caldo e vitale l’ambiente in cui si trovano.
La temperatura ideale per la dissoluzione in pochi mesi è stimata attorno ai 50 gradi.
Ma la biodegradabilità rallenta nell’acqua fredda e salata, dove invece hanno dato ottimi risultati i polidrossialcanoati Pha di cui è fortissima una piccola azienda italiana meno conosciuta, la Bio-On.
Nel mare si degradano lentamente
Le bioplastiche più comuni vengono “digerite” da quasi tutti gli impianti di compostaggio, anche se la digestione lenta si presta meno per gli impianti che puntano su prestazioni veloci.
Nemmeno il mare, freddo e salato, riesce a degradare in tempi brevi questi materiali.
Sono più veloci invece altri polimeri, come gli alcanoati Pha.
Una ricerca(clicca qui per leggere la ricerca, in inglese)ha comprovato che negli impianti di compostaggio i prodotti di bioplastica all’amido perdono il 43% di peso in tre mesi, quindi con un ottimo effetto di degradazione, ma non hanno registrato degradazioni rilevanti se esposti all’acqua dell’Adriatico. Altri studi hanno rilevato per altri biopolimeri una degradazione in mare del 10% in 48 giorni (clicca qui per leggere lo studio).
Altre ricerche hanno rilevato risultati simili: degradazione lentissima per le plastiche convenzionali, degradazione più sensibile per le bioplastiche. Interessante per esempiouno studio pubblicato dalla Royal Society su “Macrofouling communities and the degradation of plastic bags in the sea: an in situ experiment” (clicca qui per leggere) che ha confrontato in mare una bioplastica all’amido e il comune polietilene: «After 9.5 months of exposure the biodegradable plastic showed first signs of brittleness and cracks, while no disintegration was visible in the PE samples» (dopo 9 mesi e mezzo la bioplastica cominciava a fratturarsi, il polietilene no) e «after 12.5 months of exposure the biodegradable plastic showed strong brittleness in the benthic habitat and was largely fragmented in the pelagic habitat, while no disintegration was visible in the PE samples» (dopo 12 mesi e mezzo la bioplastica era fortemente degradata mentre il campione di polietilene non mostrava alcuna disintegrazione).
Pareri discordi. Forse la plastica biodegradabile non è il toccasana
Un’analisi recente dell’Environment Agency inglese (clicca qui per leggere) ipotizza addirittura che per ridurre l’inquinamento e le emissioni di anidride carbonica le borse migliori da utilizzare sono proprio quelle di plastica, a patto che i sacchetti di polietilene vengano usati più volte.
Quali invece — secondo lo studio dell’agenzia inglese per l’ambiente — le sporte con l’impatto ambientale peggiore?
Sorpresa: le peggiori sono le sportine di cotone, perché ha un forte impatto ambientale il ciclo complessivo di produzione, dalle colture di cotone bisognose di acqua e di fitofarmaci, spesso con sementi Ogm.
Ottimi i Pha (poliidrossialcanoati), i quali sono velocemente biodegradabili in molti ambienti e sono nella maggior parte dei casi totalmente di origine biologica.
Chi volesse studiare altre ricerche interessanti sulla degradabilità delle bioplastiche può leggere anche gli studi come questo (clicca qui) oppure questo (clicca qui).
Sul Mater Bi di produzione italiana c’è questo studio (clicca qui).
Ciò che inquina sono i comportamenti, non gli oggetti
Secondo Jacqueline McGlade, a capo dei ricercatori dell’Unep (l’agenzia Onu per l’ambiente) «la plastica biodegradabile è una soluzione sbagliata per il problema della plastica negli oceani» (clicca qui per leggere il parere di Jacqueline McGlade riportato dal quotidiano inglese The Guardian).
Che cosa inquina il mare: lavatrici e pneumatici
Ogni mare è sporcato da rifiuti differenti perché diversi sono i Paesi che vi si affacciano.
Mentre vetri, metalli e altri rifiuti pesanti affondano e spariscono alla vista, le plastiche galleggiano.
Gli oceani sono insozzati da grandi rifiuti plastici non riciclati: flaconi di detersivi e bottiglie di bevande, cassette di ortaggi, imballaggi di polistirolo espanso, ciabattame e suole e così via.
Il Mediterraneo è sporcato soprattutto da stoviglie di plastica (17%), cicche e filtri di sigaretta (14%), tappi (14%). I sacchetti sono il 5% (clicca qui per leggere i dati).
Ma la prima fonte di microplastiche — quelle mangiate dal plancton, il quale viene mangiato dai pesci ed entrano nella catena alimentare che arriva all’uomo — sono le fibre tessili rilasciate dalle acque di lavaggio dei tessuti, le polveri di gomma da usura degli pneumatici dilavate dalla pioggia e portate nei corsi d’acqua e al mare, le microplastiche dei cosmetici e i bastoncini cotonati non biodegradabili, per i quali finalmente una buona legge ha imposto nuovamente la degradabilità (da non confondere con gli ecologici Cotton Fioc, prodotti a marchio commerciale registrato dei bastoncini biodegradabili della Johnson).
Altri dati sul mare
Ma si può aggiungere anche una ricerca condotta dalla Legambiente, secondo cui dopo i teli i rifiuti più presenti sono i sacchetti pari al 17% dei rifiuti in acqua (clicca qui per leggere il documento della Legambiente), e molto interessante anche la ricerca Marine litter assessment in the Adriatic & Ionian seas (clicca qui per leggere) secondo cui in Adriatico i rifiuti più comuni sulle spiagge sono frammenti vari di plastica (19,89%), frammenti di polistirolo espanso (11,93%), bastoncini cotonati (9,17%), tappi di plastica da bevande (6,67%), filtri e cicche di sigarette (6,6%), cappucci di plastica (2,47%), reti per l’allevamento di conchiglie (2,43%), imballaggi di patatine e di dolciumi (2,11%). Invece l’immondizia che galleggia in acqua è formata soprattutto da sacchi di plastica (26,5%), frammenti di plastica (20,3%), teli di plastica (13,3%), cassette di polistirolo per pesce (11,4%). Posati sul fondale invece bottiglie di vetro o cocci di vetro (29,2%), flaconi di plastica (14,3%) e lattine di metallo (12,1%).
Il commento del ministro Galletti
«L’entrata in vigore della normativa ambientale sugli shopper ultraleggeri è un atto di civiltà ecologica che pone l’Italia all’avanguardia nel mondo nella protezione del territorio e del mare dall’inquinamento da plastiche e microplastiche», afferma il ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti. «Le polemiche sul pagamento di uno o due centesimi a busta sono solo un’occasione di strumentalizzazione elettorale».
Il parere della Filctem Cgil
Secondo Sergio Cardinali, Filctem Cgil, «la Novamont campione internazionale indiscusso sul fronte della ricerca e di nuovi brevetti è un’azienda capace di produrre una buona alternativa per recupero di siti produttivi industriali fortemente inquinati presenti anche ne nostro Paese. I rincari per i sacchetti, calcolati intorno ai 5-7 euro a famiglia l’anno, sono poi ben poca cosa rispetto a quelli dell'energia, gas e petroli previsti per questo anno, forse su questo bisognerebbe invece porre una certa attenzione».
Vari tipi di plastica biodegradabile
L’acido succinico può essere prodotto per via petrochimica dal butano (modesta nel mondo la capacità produttiva, intorno alle 30mila tonnellate l’anno) o per via fermentativa dalla fermentazione del glucosio (oggi la capacità produttiva è di più di 100mila tonnellate l’anno con ben due impianti di grande scala negli Usa).
Reverdia ha già un impianto di acido succinico con scala di 10mila tonnellate l’anno in Italia a Cassano Spinola.
Oltre al noto Mater Bi prodotto dalla Novamont su base amido, vanno ricordati anche i prodotti registrati dall’organismo di certificazione belga Vincotte, come il Meredian, il Metabolix, il Danimer.
© Riproduzione riservata