«Vuole un esempio? Questa azienda, la Eurofenster: procedura aperta nel novembre 2016 e chiusa un anno dopo». La funzionaria del Tribunale di Rovereto è giustamente orgogliosa. Appena due gli impiegati della cancelleria, «mai assenti per malattia, però», che realizzano per l’Italia il record assoluto in termini di rapidità nella gestione dei fallimenti: 3 anni e 5 mesi. Pare già un’enormità. E tuttavia, purtroppo, non si tratta della regola, in un paese che ancora ne impiega in media più di sette.
Gli ultimi dati Cerved, che scandagliano la produttività dei singoli tribunali, offrono in realtà un quadro mediamente confortante, almeno dal punto di vista del trend. Il valore medio, 7 anni e un mese, è infatti il più basso dal 2003 (6,8 anni), ben distante dai picchi di otto anni e 10 mesi del 2010-2011, in confortante recupero di tre mesi rispetto al 2015. Miglioramento interessante soprattutto perché avvenuto nel pieno della crisi, in coincidenza con un picco (+22%) di nuove pratiche aperte, il massimo degli ultimi 15 anni.
La maggiore velocità di esecuzione, agevolata dalla normativa del 2015 che impone ai curatori un termine di 24 mesi per liquidare gli attivi, ha consentito al sistema di andare quasi in pareggio: i fallimenti chiusi sono in linea con le nuove procedure aperte (non accadeva dal 2010) e per il 2017 ci si attende addirittura un chiaro sorpasso, con la possibilità di aggredire le pratiche pregresse.
A penalizzare la media è però soprattutto l’esistenza di code infinite, dossier pendenti ormai da oltre 20 anni. Distribuzione “lunga” che distanzia di molto media e mediana, con la metà delle pratiche che riesce ad essere gestita in meno di cinque anni, il primo 25% addirittura entro due anni e cinque mesi.
Gli effetti della riforma varata nel 2015 sono evidenti nell’aumento delle pratiche “sprint”, chiuse entro due anni, arrivate ormai a ridosso del 18%, tre punti in più rispetto al minimo del 2013. Le medie, come detto, nascondono una varianza rilevante, anzitutto settoriale, con tempi più contenute per le imprese di servizi (6 anni e 7 mesi) mentre all’estremo opposto si trova l’agricoltura (10 anni e sei mesi); ad ogni modo, per tutti i comparti il trend è favorevole, con tempi in riduzione.
Ma le distanze maggiori sono senza dubbio territoriali, con escursioni rilevanti tra le aree più efficienti (Rovereto, 3,4 anni) e Fermo, all’estremo opposto, dove per chiudere un fallimento si impiegano in media oltre 18 anni. Con poche eccezioni, le performance migliori sono per le aree del Nord mentre il Mezzogiorno è l’area in cui è più elevato il peso dell’arretrato: in queste regioni è ancora aperta più della metà dei 51mila fallimenti dichiarati tra 2001 e 2016, percentuale limitata al 43% per il Nord-Ovest.
Maggior carico che al Sud si traduce in tempi più lunghi, in media 9 anni e 4 mesi, tre anni e mezzo in più rispetto al Nord Ovest, area più efficiente della penisola.
Solo un problema di squilibri nei carichi di lavoro? Il piccolo tribunale di Rovereto ha in effetti dovuto gestire nel 2016 solo 61 pratiche, scese addirittura a 24 nel 2017. Ma in generale non pare questo l’elemento discriminante. La Lombardia, area ad alta densità manifatturiera, presenta nel 2016 nuovi fallimenti tripli rispetto alla Sicilia, impiegando però la metà del tempo per portare a conclusione una pratica. Eppure, anche al Sud vi sono aree di eccellenza, come dimostrano alcuni tribunali in Calabria (Vibo Valentia 3,7 anni, terzo posto assoluto, Paola al 14esimo posto, 5 anni), così come l’essere inseriti in aree produttive più avanzate non garantisce performance brillanti: è il caso di Fermo, fanalino di coda con 18,6 anni, o ancora Lecco, agli ultimi posti con 11,9 anni.
«Le differenze territoriali sono ampie e vanno ridotte - spiega l’ad di Cerved Marco Nespolo - ma il trend generale che stiamo osservano è positivo. Le riforme varate stanno funzionando, noi stessi avevamo previsto un miglioramento della produttività dei tribunali grazie alla nuova normativa, evento che si sta verificando».
Dare soddisfazione (anche se parziale) ai creditori e chiudere il contenzioso in tempi rapidi è in realtà un obiettivo di fondo la cui portata va ben al di là della semplice statistica o del confronto di produttività. Tema chiave anzitutto per gli investitori internazionali, che mal digeriscono i tempi lunghi e le incertezze della nostra giustizia civile. Ma l’altro problema, più pervasivo, riguarda i crediti non performanti: sviluppare un mercato efficiente degli Npl richiede infatti velocità di esecuzione, in modo che le banche (o gli investitori che rilevano i titoli) possano rientrare rapidamente almeno parzialmente in possesso di quanto prestato.
«La durata dei fallimenti e delle esecuzioni immobiliari impatta direttamente sul mercato dei performing loans - aggiunge Nespolo - e la riduzione dei tempi è un modo per dare ossigeno alle banche, permettendo loro di erogare più credito all’economia. Dove potremmo arrivare? A bocce ferme un altro anno e mezzo di taglio dei tempi è alla nostra portata, punto di arrivo assolutamente raggiungibile grazie alle riforme. Ma il lavoro non può fermarsi lì, perché dire ad un investitore estero che servono cinque anni per recuperare un credito di un’azienda fallita è comunque un problema».
Tempi lunghi in Italia vi sono anche per le esecuzioni immobiliari, dove a differenza dei fallimenti il trend non è però favorevole. Le procedure che si chiudono con l’aggiudicazione dell’immobile durano in media 5 anni, erano 4 nel 2013. Incremento legato all’ingolfamento del sistema, che dal 2010 al 2016 è stato in effetti sommerso da ben 440mila pratiche, riuscendo a smaltirne solo poco più di metà. Anche se la graduatoria puntuale cambia, in generale esiste una chiara correlazione nelle tempistiche dei singoli tribunali: le “lumache” nei fallimenti sono in genere in coda alla classifica anche nelle esecuzioni.
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