C’è chi investe per far crescere la propria reputazione e chi per distruggere quella dei competitor. È il marketing ai tempi delle fake news, bellezza. Con aziende grandi e piccole, nazionali e multinazionali, chiamate tutte a navigare nel «mare magnum» del web, un occhio alle tempeste (dei mercati) e uno a eventuali «arrembaggi» (di chi non sa dove stia di casa il fair play).
Ma se è tempo di «pirati», giusto attrezzarsi per evitarne gli attacchi: ecco che si moltiplicano i casi di aziende che impiegano risorse per arginare il fenomeno delle fake news. Ha fatto rumore la clamorosa presa di posizione di Unilever, colosso anglo-olandese del settore food tra i principali inserzionisti pubblicitari al mondo che ha minacciato giganti di internet come Alphabet e Facebook di dare una stretta agli investimenti in advertising se non alzeranno barricate contro le «bufale», lesive della reputazione dei settori di riferimento e dell’azienda. Il fenomeno, in sé, non è nuovo: le campagne elettorali, da una parte all’altra del pianeta, hanno fatto da «laboratorio» alla diffusione sui social di notizie false e tendenziose per colpire gli avversari. Processo che si è esteso rapidamente anche a economia e finanza. Nuovo, semmai, è l’atteggiamento delle imprese che di restare a guardare non ne vogliono più sapere. Soprattutto nel settore dell’industria alimentare, quello che in «reputazione» investe più di tutti. E allora si risponde colpo su colpo.
La Soresina, 2,5 milioni contro le fake news
In Italia, per esempio, si segnala l’attivismo di Latteria Soresina, gruppo del comparto lattiero-caseario dell’omonima cittadina in provincia di Cremona con 580 dipendenti e 365 milioni di fatturato nel 2017 (+9% rispetto all’anno precedente). Per rispondere al movimento «no milk» che, attraverso blog specializzati e post sui social network, contesta il consumo di latte ritenuto dannoso per la salute, la Soresina ha avviato una campagna di comunicazione sui canali web e Tv. Valore dell’investimento: 2,5 milioni. «Per noi - spiega il presidente del gruppo Tiziano Fusar Poli - la comunicazione non è solo uno strumento per pubblicizzare i nostri prodotti, ma una dichiarazione autentica del nostro vero modo di essere. Abbiamo realizzato una campagna educativa e coinvolgente, di impatto creativo e di lungo respiro, riuscendo ad esprimere i valori di Latteria Soresina e al tempo stesso capitalizzando anche quanto costruito in questi anni dalla nostra azienda».
Barilla (non) è americana
Persino Barilla, big player globale del settore alimentare, si è ritrovata al centro di una fake news circolata per lungo tempo sui social network. Molto curiosa: il gruppo emiliano secondo molti post reperibili online sarebbe di proprietà americana. Della serie: attacco al cuore dell’identità di un marchio. Tutto falso, comunque, tanto è vero che l’azienda ha messo in evidenza, attraverso i canali web, le righe che seguono: «Barilla è italiana, con quartier generale a Parma, dove è nata nel 1877. La storia dell’azienda è la storia della famiglia Barilla, alla guida del gruppo da quattro generazioni, oggi con i fratelli Guido, Luca e Paolo. Nel 1971 i fratelli Pietro e Gianni Barilla, per ragioni familiari e legate al periodo storico-sociale, decisero di vendere l’azienda alla multinazionale americana Wr Grace. Barilla rimase sotto la gestione della Grace fino al 1979. Dal momento della vendita e per tutti gli otto anni successivi, il pensiero fisso di Pietro Barilla era come riprendersi l’azienda. Nel 1979, firmando una case history speciale nel mondo del business, Pietro Barilla riesce a riacquisire l’azienda, che da allora è sempre rimasta nelle mani italiane, della famiglia». Giusto per fare chiarezza.
Bertolli alla «guerra di California»
Altri marchi storici italiani che hanno dovuto vedersela con le fake news sono Bertolli e Carapelli, brand oleari di proprietà del gruppo spagnolo Deoleo. Bertolli, in particolare, gode da sempre di una grande riconoscibilità sul mercato americano. Un protagonismo vissuto con un certo fastidio dai produttori a stelle e strisce. L’Università di Davis in California ha pubblicato uno studio nel quale si mettono in discussione le qualità organolettiche degli oli italiani. Studio curiosamente ripreso da numerosi account social di Serbia e Macedonia che farebbero pensare a un’azione di lobbying da parte di produttori americani intenzionati a fare muro contro il gruppo Deoleo. Quest’ultimo risponde per le rime attraverso una ricerca che smonta, pezzo dopo pezzo, lo studio dell’Università di Davis e una campagna di marketing da 7 milioni di investimento. Perché, in un mondo che fa sempre più fatica a distinguere fiction e reality, restare a guardare è un lusso che nessuno può più permettersi.
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