Economia

Lavoro, perché i contratti a termine non sono nati con il Jobs…

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Di Maio e le parole sul precariato

Lavoro, perché i contratti a termine non sono nati con il Jobs Act. E ci saranno ancora

In uno dei suoi primi interventi da ministro del Lavoro, Luigi Di Maio ha sfoderato un vecchio cavallo di battaglia: la rivisitazione del Jobs act, la riforma dell’impiego varata dal governo Renzi nel 2014 e accusata di creare «troppa precarietà» in un mercato già stravolto dalla crisi. Una condizione conosciuta bene dai giovani, fra le categorie che hanno subìto di più la precarizzazione dei rapporti di lavoro. Tutta colpa del Jobs act e dell’occupazione creata sotto al suo regime dal 2015 al 2017? Non proprio, o almeno, non del tutto.

Da un lato, sono i numeri a confermare un aumento di contratti instabili negli ultimi tre anni: secondo i dati Inps le nuove assunzioni a tempo indeterminato di 15-29enni sono calate dalle 397.878 del periodo gennaio-ottobre 2015 alle 235.600 dello stesso frangente del 2017 (-144.278), a fronte di aumento di circa 500mila contratti a termine nello stesso periodo. Dall’altro la proliferazione di contratti a tempo e varianti instabili tra i giovani (e meno giovani) risale ad anni prima l’approvazione della riforma. E non sembra destinata a esaurirsi con un rimaneggiamento robusto del Jobs act, pur corresponsabile di un aumento del lavoro dettato più dalla quantità che dalla qualità dell’impiego.

La crescita esplosiva dei contratti a tempo
La premessa è che l’espansione dei contratti a termine fra i giovani non è una realtà solo italiana. I dati di Eurostat, l’agenzia di statistica dell’Unione europea, mostrano che nel 2016 oltre il 40% degli under 24 europei risultava assunto con un contratto a termine. È vero che la scelta di prendere a campione la fascia dai 15 ai 24 anni viene messa in dubbio, perché ritenuta poco indicativa di un mercato che inizia a scaldarsi solo dopo i 20 anni. Ma fa comunque effetto vedere che fra i dipendenti 50enni la quota di contratti a termine si fermi al 6,9%, salendo a un massimo del 13% nella fascia fra i 25 e i 49 anni. In questo scenario, l’Italia è comunque riuscita a mantenersi su standard peggiori rispetto a quelli continentali.

Nel 2016, in pieno Jobs act, l’incidenza di contratti a tempo fra gli under 24 era pari al 54,7% (circa l’11% in più della media Ue). Scorrendo a ritroso i dati emerge che tra 2007 e 2012, con l’esplosione della crisi, il tasso di under 24 contrattualizzati per «lavori temporanei» è salito dal 42,3% al 52,9 per cento. Un balzo pari a oltre 10 volte l’incremento di rapporti precari registrati nello stesso periodo in Europa (saliti dal 41,3% al 42,1%, lo 0,8% in più), oltretutto a fronte di prospettive ben diverse per le fasi successive della propria carriera. Nel resto d’Europa, come abbiamo visto, i contratti a termine dai 25 anni in poi finiscono per scendere intorno al 10 per cento. In Italia, come abbiamo visto, i nuovi contratti a termine sono cresciuti a buon ritmo anche nella fascia dai 25 ai 29 anni nel triennio 2015-2017.

...e dei «non contratti» a svantaggio dei giovani
L’aumento di contratti a tempo determinato non è l’unico sintomo dell’instabilità che si è aggravata, o confermata, negli anni del Jobs act. La crisi ha fatto fiorire forme di lavoro instabile caratterizzate, a volte, dall’assenza di un vincolo basilare come il tempo pieno. In questo senso, parla chiaro la crescita di lavoratori sotto ai 34 anni incastrati in un rapporto di «sottoccupazione e part time involontario»: giovani che lavorano meno di quanto vorrebbero (sottoccupati) o si devono accontantare del tempo parziale, pur dichiarandosi disponibili al tempo pieno (part time involontario). Nella fascia dai 15 ai 34 anni, la quota di sottoccupati e lavoratori a tempo parziale è più che raddoppiata dal 2,1% del 2008 al 4,7% del 2013, l’ultimo anno prima dell’entrata in scena del Jobs act. Da allora si è mantenuta su valori simili, scendendo a circa il 4% nell’ultimo trimestre del 2017.

La disoccupazione a lungo termine e le forme di precariato non si scaricano solo sulle prospettive di crescita di un’economia irrigidita in un sistema duale fra la solidità dei vecchi contratti e l’iperflessibilità dei nuovi. Si traduce in una serie di reazioni con impatto, prima di tutto, sulle scelte politiche. Un’analisi di Eurofound, la fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, ha evidenziato che le persone sospese nello status di precari e disoccupati per oltre 12 mesi «hanno una soddisfazione più bassa, meno fiducia nel governo e nelle istituzioni pubbliche, meno benessere psicologico e un alto rischio di esclusione sociale. Per i giovani, questo può avere un effetto preoccupante sul loro potenziale di guadagno». Letto così, sembra l’elenco delle ragioni che hanno fatto impennare il voto a favore delle forze populiste, spinte al governo del Paese dallo scontento per le istituzioni e da un malessere sociale dovuto (anche) alla disoccupazione.

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