Nella partita doppia del budget comunitario lo scarto per l’Italia è di circa 2 miliardi di euro all’anno. Lo ha ricordato la settimana scorsa il Commissario Ue Günther Oettinger, in risposta alla minaccia del Governo italiano di congelare i contributi a Bruxelles. In termini generali si tratta di un assegno di 12 miliardi contro 9,8 di fondi europei ricevuti. Nel 2017 - come mostrano i dati di Bruxelles elaborati dal Sole 24 Ore - l’Italia ha versato nelle casse europee 198 euro a persona, ricevendo finanziamenti per circa 162, con una differenza di 36 euro pro capite. È quindi uno dei cosiddetti «contributori netti» della Ue, che versano cioè più di quanto incassano. Al tempo stesso il nostro Paese compare 13 volte nella top 5 dei beneficiari, non scivolando mai al di sotto dell’ottava posizione se si considerano i 19 capitoli-chiave del budget comunitario: dalle infrastrutture al sostegno alle Pmi, passando per i fondi regionali, l’agricoltura e la sicurezza.
I «contributori netti»
La squadra dei contributori netti è formata da nove Paesi. I più generosi con Bruxelles sono gli svedesi che sostengono il
bilancio europeo con un saldo tra dare e avere di circa 113 euro a persona (1,1 miliardi in valore assoluto). Segue la Germania
con poco più di 100 euro a persona - tre volte l’Italia - e complessivamente 8,7 miliardi. Tutti i big, tranne la Spagna,
fanno parte di questo gruppo. Al polo opposto, fatta eccezione per qualche caso isolato, sfilano gli Stati reduci da programmi
di salvataggio (Grecia, Portogallo e Irlanda) o gli ultimi arrivati nel club europeo, come i Paesi dell’Est (Ungheria compresa)
e quelli baltici, in nome dello sforzo solidaristico, ribadito anche dai Trattati Ue, che impone ai più forti di aiutare
i più deboli. Tra tutti spicca però il piccolo Lussemburgo: grazie anche a una popolazione che non arriva a 600mila persone
il Granducato incassa dai fondi comunitari quasi 2.600 euro netti a persona ( in tutto sborsa 307 milioni e incassa 1,8 miliardi).
Il primato in termini assoluti spetta però alla Polonia, con un saldo positivo di 8,8 miliardi.
I capitoli di spesa
A scorrere i dati sui singoli programmi europei selezionati, la prima sorpresa arriva dal Fami, il Fondo per l’asilo, la migrazione
e l’integrazione istituito nel 2014 per la gestione dei migranti e le politiche di accoglienza. Su una dotazione complessiva
di 598 milioni, l’Italia ne riceve 91, posizionandosi al primo posto, seguita da Regno Unito e Svezia. E il nostro Paese
fa il pieno di fondi Ue anche su altre voci di spesa più consistenti. Sul fronte della «crescita intelligente e inclusiva»
l’Italia porta a casa un tesoretto che supera i 3 miliardi, di cui 1,5 solo per investimenti a favore della crescita e dell’occupazione.
In particolare siamo al terzo posto, in termini assoluti, per le risorse dedicate ai progetti infrastrutturali, dopo Francia
e Germania, e saliamo sul podio anche per Cosme, il programma per la competitività delle imprese, dopo Belgio e Germania.
Merita un accenno, per la mole di finanziamenti, il programma Horizon 2020: qui il nostro Paese conquista il sesto posto nella
classifica a Ventotto, ma l’apporto comunitario per il solo 2017 vale più di 8 00 milioni di euro con cui si finanzia la ricerca.
C’è poi l’intero capitolo della programmazione sulla crescita sostenibile, che lo scorso anno ha portato nelle casse italiane
quasi 5 miliardi di euro: meglio è andata solo alla Francia, Spagna e Germania. Si tratta dell’enorme massa di finanziamenti
europei che ogni anno vanno a nutrire i fondi per l’agricoltura, lo sviluppo rurale e la pesca.
ll valore aggiunto europeo
Fin qui i numeri. Ma oltre al saldo con Bruxelles, fa notare Grégory Claeys, ricercatore del think tank Bruegel di Bruxelles,
«non bisogna dimenticare il valore aggiunto per gli Stati europei che deriva dalla partecipazione al bilancio Ue». E cita
i principali capitoli di spesa della programmazione 2014-2020 con la cabina di regia comunitaria. «Una gestione centralizzata
delle politiche agricole – spiega il ricercatore - evita l’erogazione di sussidi nazionali agli agricoltori, costosi e dannosi
per la concorrenza, mentre favorisce una più sana competizione tra i Paesi. Per le politiche regionali e i fondi per l’industria,
l’innovazione e la ricerca, un coordinamento unico consente investimenti maggiori rispetto a quelli che i singoli Stati, da
soli, non riuscirebbero a sostenere, anche in progetti che coinvolgono più Paesi». Il risultato? «Un impatto positivo sulla
competitività dell’intera Ue rispetto al resto del mondo».
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