Sei anni per arrivare ad una svolta col passaggio dell’Ilva, sino al 2012 in mano ai Riva, dai commissari di Stato al nuovo azionista Arcelor Mittal e un anno di trattative con Mittal per chiudere l’accordo sindacale. Probabilmente poche altre vertenze, relative a crisi industriali complesse, hanno avuto un tempo di gestione così lungo.
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Ma qui la partita non era facile. Per tanti motivi. Perché a luglio 2012 è intervenuta la Magistratura che ha sequestrato senza facoltà d’uso gli impianti del siderurgico di Taranto per disastro ambientale; perché, per alcuni anni, c’è stato un aspro conflitto tra magistrati e Governo; perché per l’Ilva c’è voluto un intervento legislativo senza precedenti; e perché se la posta in gioco era rilevante, oneroso era anche il rilancio industriale dell’Ilva e la messa in sicurezza ambientale del sito di Taranto.
Basti pensare che, tra acquisto e investimenti, Mittal ha messo sul piatto 4 miliardi. Senza il commissariamento da parte dello Stato, scattato a giugno 2013, una volta che i Riva si erano dimessi dal board a seguito dell’offensiva della magistratura, e senza l’amministrazione straordinaria scattata a gennaio 2015, l’Ilva, seduta su una montagna di debiti, sarebbe fallita lasciando a terra 15mila persone (allora, oggi sono meno di 14mila). E invece il commissariamento, sia pure molto lungo e con tante difficoltà, ha comunque tenuto in piedi l’Ilva.
Certo, l’azienda perde un milione di euro al giorno, ma va anche detto che non c’è stato un mese in cui non siano stati pagati gli stipendi a tutti i dipendenti.
I 10.700 assunti il punto di svolta
E adesso, firmato l’accordo, tocca ad Arcelor Mittal, dopo la gara di aggiudicazione vinta a giugno battendo la concorrenza
di Acciaitalia (con Jindal e Cassa Depositi e Prestiti), scrivere una pagina nuova. Avviando il rilancio industriale del gruppo siderurgico e accelerandone la messa a norma ambientale.
L’intesa è stata messa nero su bianco, ma sindacati e Mittal hanno cominciato a trattare un anno fa. Mesi di trattative, incontri
su incontri al Mise, mediati dall’ex ministro Carlo Calenda e dall’ex vice ministro Teresa Bellanova, ma senza mai riuscire a raggiungere un punto fermo. Anche quando Calenda ha provato l’affondo, il rush finale non si è mai
visto. Non c’erano le condizioni ma, soprattutto, non c’erano i numeri. La bozza di intesa Calenda, presentata il 10 maggio
scorso e subito respinta dalla maggioranza dei sindacati, prevedeva 10mila assunti, circa 1.200-1.500 addetti travasati nella società mista Ilva-Invitalia (società quest’ultima controllata dal Tesoro) che avrebbe fatto un pezzo di
bonifiche e altre attività, e il resto - circa 2mila lavoratori - smaltiti attraverso gli esodi volontari, agevolati e incentivati (200 milioni il plafond destinato).
Calenda assicurava zero esuberi alla fine del percorso, nel senso che tutti avrebbero avuto una “protezione” o una ricollocazione. Ma i sindacati non si sono fidati. Percorso incerto, a rischio, dicevano. E in quanto ai 10mila assunti, hanno ritenuto il numero troppo basso. Hanno tentato di schiodare Mittal da quota 10mila ma non ci sono riusciti. La multinazionale, pur pressata, teneva duro e rispondeva: la mia offerta era di circa 8mila addetti, sottoscrivendo il contratto di acquisizione, ho già fatto un passo avanti portandomi a 10mila. E quando Mittal ha fatto un’apertura, si è attestato su 10.100 assunti rinviando l’assunzione di altri 400 nel 2023. Tra cinque anni. Un tempo troppo lungo, commentarono le sigle metalmeccaniche.
L’accordo con Di Maio
Con la gestione del ministro Luigi Di Maio, quando si è aperta la fase conclusiva del negoziato, si è partiti - nuova proposta
di Mittal - da un numero di occupati più alto: 10.300. Di cui 10.100 entro fine anno e altri 200 entro fine 2021. Prima differenza
rispetto alla bozza Calenda: 300 assunti in piú e due anni in meno sui tempi complessivi. Ma anche quest’offerta non ha convinto
i sindacati, decisi a insistere sulla necessità di alzare l’asticella. La richiesta che circolava andava da 10.500 a 10.700
addetti. E anche il Mise lavorava per far crescere il numero degli occupati. Col passare delle ore l’obiettivo dei 10.700
non sembrava impossibile. Alla fine Arcelor Mittal ha detto di sì. Alla fine, quindi, il saldo è positivo: 700 assunzioni in più (o 200 in più, se si considera l’ultima ipotesi presentata da Arcelor Mittal all’allora “tavolo Calenda”). Confermata la tutela dell’articolo 18 già prevista anche nella bozza di accordo di maggio.
Scompare la società mista
Si è dovuta alzare l’asticella degli occupati diretti anche perché, rispetto alla bozza Calenda, la gestione Di Maio ha fatto venir meno l’ipotesi della società mista. E quindi tutto il personale Ilva - circa 13.500 lavoratori tra Taranto, Genova, Novi Ligure e Paderno Dugnano - è stato
ripartito su due fronti: i 10.700 che transitano a Mittal, nelle quattro società costituite allo scopo - la capogruppo più quelle dei servizi -, e quelli che beneficeranno dell’esodo
volontario incentivato e anticipato. Con quest’ultimo, si pensa di coinvolgere dalle 2.500 alle 2.800 personedando loro un bonus di 100mila euro lordi a testa (previsto anche nel piano precedente). Il bonus sarà finanziato dai canoni di fitto - 180 milioni all’anno - che Mittal, prima di acquisire l’Ilva, verserà all’amministrazione
straordinaria dei commissari. Che resta in carica. Rafforzata, poi, la clausola che tutela chi, a fine piano industriale (cioè
a partire dall’agosto 2023) dovesse essere ancora non assunto o non uscito con l’esodo incentivato: Mittal gli farà una proposta
di assunzione.
Il nodo ambientale
Insieme all’occupazione, l’ambiente era l’altro fronte delicato. Essendo l’Ilva un’azienda con emissioni impattanti. A fronte
dei pareri dell’Autorità Anticorruzione (nella gara di aggiudicazione dell’Ilva ci sono delle criticità) e dell’Avvocatura
dello Stato (il documento deve ancora essere desecretato), ad un certo punto è sembrato profilarsi che tutto potesse saltare.
Ma Di Maio ha subito chiarito: il fatto che la gara sia illegale non ne determina, automaticamente, l’annullamento. Occorre
che sia colpito anche un pubblico interesse concreto. E questo pubblico interesse, ha aggiunto Di Maio, lo si può ancora tutelare
se sul piano ambientale e occupazionale si arriva ad un’intesa decisamente migliore e più avanzata.
Sull’ambiente, in verità, Mittal aveva già fatto passi avanti ai primi di luglio quando sottopose al ministro uno schema dal quale, per una serie di lavori, si evinceva che i tempi, rispetto al contratto di giugno 2017 e al Dpcm di settembre 2017 (l’Aia), erano stati ridotti da un minimo di sei ad un massimo di trenta mesi. Sull’aspetto tempistiche, Mittal ha ulteriormente lavorato e gli “addendum” rispetto al contratto di acquisizione sono parte dell’accordo odierno. Adesso la nuova offerta si sostanzia in tempi piú stretti, ulteriori interventi, nuovi obiettivi da raggiungere come abbattimento di emissioni.
Le reazioni del territorio
Positive quelle del sindaco di Taranto, Rinaldo Melucci, e del presidente di Confindustria Taranto, Vincenzo Cesareo. «Alla fine ha prevalso il buon senso in tutti e la politica strumentale ha fatto un passo indietro» dice Melucci riferendosi
a quanti, tra Cinque Stelle, movimenti vari e ambientalisti radicali, hanno battuto sulla chiusura dell’Ilva. «L’accordo è
positivo, si chiude una fase molto difficile, ma la vera partita comincia adesso - dichiara Cesareo -. Il rilancio industriale
dell’Ilva e il suo risanamento ambientale possono essere una battaglia vincente se si lavora tutti insieme, se c’è condivisione
e se il nuovo investitore si apre al territorio e si confronta positivamente con esso. Penso che Mittal lo farà senz’altro».
Delusi, arrabbiati, critici, tutti coloro che in questi mesi, rivolgendosi a Di Maio e ai ministri dell’Ambiente, Sergio Costa, della Salute, Giulia Grillo, non hanno fatto altro che chiedere la dismissione del siderurgico e l’avvio di una riconversione economica dell’area di Taranto. Nel mirino sono i Cinque Stelle. I cinque parlamentari eletti a marzo sono accusati di “tradimento elettorale” e vengono invitati a dimettersi anche se, per la verità, mai Di Maio ha parlato di chiusura dell’Ilva. Nemmeno quando è venuto a Taranto a febbraio per la campagna elettorale. Non ha pagato la fuga in avanti di alcuni pentastellati, inclini più ad assecondare il pressing della base e dell’elettorato che a guardare la realtà. Basti pensare che a giugno, incontrando i sindacati, Lorenzo Fioramonti, oggi sottosegretario all’Istruzione, ha parlato di chiusura progressiva dell’Ilva. Per non parlare di Beppe Grillo che aveva ipotizzato laddove oggi ci sono altiforni e acciaierie, un mega parco giochi.
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