La legge di bilancio mette sul piatto del prossimo anno 1,1 miliardi per il rinnovo dei contratti del pubblico impiego. Ma il 70% di questi fondi è già «prenotato» per vincoli di legge o per destinazioni di fatto obbligate. Sul tavolo delle trattative restano insomma 330 milioni, che si tradurrebbero in un aumento medio da poco meno di 10 euro a dipendente. Difficile quindi che il confronto parta davvero. E anche per il 2020 e 2021 i binari sono stretti.
È la relazione tecnica trasmessa in Parlamento insieme alla legge di bilancio a trasformare in cifre i risultati del confronto tra la Funzione pubblica e il ministero dell’Economia sulle buste paga degli statali. Tra le voci del programma inviato a Bruxelles il rinnovo contrattuale dei dipendenti pubblici non c’era. Nella manovra è stato invece inserito un articolo, il 34, intitolato al «rinnovo contrattuale 2019-2021» dei dipendenti pubblici. Ma le tabelle della relazione tecnica svelano l’arcano.
Gli 1,1 miliardi, che diventano 1,45 nel 2020 e 1,78 nel 2021, produrrebbero un aumento medio intorno da 33 euro lordi al mese nel primo anno, 41 euro nel secondo e 49 nel terzo. Non sono numeri trascurabili, tanto più che arrivano pochi mesi dopo la firma dei contratti 2016-18. Ma nel passaggio dalla teoria alla pratica intervengono le quote già «prenotate». La prima è rappresentata dai 250 milioni all’anno dell’«elemento perequativo», cioè l’aumento temporaneo con cui l’ultima tornata contrattuale ha irrobustito un po’ le buste paga più basse. Questa voce decadrebbe a gennaio, ma un aumento con l’elastico è un problema politico non da poco. Perché lasciare le cose come stanno significherebbe di fatto sforbiciare gli stipendi più bassi. Altri 310 milioni il primo anno, e 500 dal secondo, servono per finanziare l’«indennità di vacanza contrattuale», cioè la voce dovuta per legge ai dipendenti pubblici quando il rinnovo tarda. Una terza fetta, 210 milioni all’anno, è poi destinata alla «specificità» di forze di polizia e vigili del fuoco, con il solito meccanismo che incrementa i loro fondi integrativi per compensare le attività operative su strada.
Dopo questa “pulizia”, per il confronto fra governo e sindacati ai tavoli dell’Aran restano 330 milioni il primo anno, 465 per il 2020 e 815 per il 2021. Cifre che ricordano da vicino quelle stanziate nel 2016 dal governo Renzi dopo che la Corte costituzionale stabilì l’illegittimità del congelamento sine die per i rinnovi contrattuali. In quel caso, i soldi in grado di avviare davvero le trattative arrivarono solo nel 2018, al terzo anno del contratto da rinnovare. E le condizioni della finanza pubblica suggeriscono anche per questa volta un percorso simile. Il tutto mentre per i 150mila dirigenti pubblici è ancora in stallo la trattativa per il 2016-18 e in particolare per i medici, che sono l’ampia maggioranza degli interessati, le richieste sindacali imporrebbero somme aggiuntive in manovra.
Ma c’è di più. I soldi stanziati dalla legge di bilancio servono per gli 1,88 milioni di dipendenti statali, ma hanno un riflesso immediato anche sui bilanci di Regioni, enti locali, sanità e università, dove lavorano altri 1,4 milioni di italiani. Questi enti devono finanziare i rinnovi contrattuali con i loro bilanci, e dovranno quindi accantonare da subito una cifra che sempre secondo la relazione tecnica vale 940 milioni il primo anno, 1,2 il secondo e 1,42 dal terzo.
Insieme al programma di assunzioni straordinarie, la mossa fa crescere rispetto ai programmi il costo del personale pubblico, con un incremento vicino ai 2 miliardi dal 2021. Ma la strada verso i nuovi contratti rimane lunga.
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