Dal confine con la Grecia fino alle onde dell’Adriatico, seguo chilometro per chilometro tutto il percorso in Albania del metanodotto Tap, un viaggio nello spazio ma anche nel tempo, ieri e oggi. Ieri, 78 anni fa. Era l’ultima settimana del novembre 1940; sotto un’acqua che cadeva al rovescio i ragazzi della divisione Parma si infangavano fin sopra al ginocchio a Bilisht, sul confine tra l’Albania e la Grecia. I greci sparavano a mortaio addosso agli italiani.
Oggi, fine novembre 2018. A Bilisht passa il metanodotto Tap che unisce i greci con gli albanesi e gli albanesi con gli italiani. Quelli che si massacravano 78 anni fa nella pioggia lercia e gelata non avrebbero mai potuto pensare come sarebbe cambiato il mondo, non avrebbero mai immaginato che una tubatura fra le montagne del Pindo avrebbe unito popoli in pace.
Racconto l’altro lato del Tap, dall’altra parte dell’Adriatico. Racconto il lato B(alcanico) seguendo il percorso del metano
dal confine greco fino alle onde amarissime del mare. Con il fotografo albanese Gent Shkullaku, che documenta il viaggio,
seguo i 215 chilometri di metanodotto in costruzione dove non ci sono i comitati nimby e i movimenti no-tap (sbloccato il cantiere pugliese di Melendugno) e dove il lavoro corre e dove la posa della conduttura è quasi finita. Tra due anni il metano comincerà a correre dal mar
Caspio verso l’Europa.
Di che cosa stiamo parlando
Il Tap, sigla di Trans Adriatic Pipeline, è un metanodotto del Corridoio Sud in costruzione per collegare con i consumatori
europei i giacimenti in Azerbaigian. L’intera opera chiede un investimento nell’ordine dei 40 miliardi e assume nomi diversi
secondo il tratto attraversato. Si chiama Scp la tubatura che comincia nel mar Caspio e attraversa la Georgia fino al confine turco. Si chiama Tanap (Trans Analtolian Pipeline) la tubatura che percorre in Turchia le montagne dell’Anatolia, attraversa i Dardanelli e arriva
fino al confine della Turchia con la Grecia. Lì finisce in Tanap.
Ad Alessandropoli, in località Kipoi, comincia il Tap propriamente detto, Trans Adriatic Pipeline. I soci sono l’inglese Bp (20%), la compagnia petrolifera di Stato dell’Azerbaigian Socar (20%), l’italiana Snam (20%), la belga Fluxys (19%), la spagnola Enagás (16%) e la svizzera Axpo (5%). Costo del Tap: 4,5 miliardi. Il tratto balcanico è quasi tutto costruito. Quello italiano è in corso ma si scontra con i comitati nimby e le loro denunce a ripetizione, cui seguono indagini e sequestri.
Il percorso dalla Turchia a Brindisi
Oggi il Tap è quasi tutto posato. Sarà in funzione dal 2020. A completare la linea manca ancora la posa del tubo sotto l’Adriatico
mentre causa contestazioni locali sono al rallentatore i lavori nel breve tratto italiano. Il Tap attraversa la Tracia, corre
a nord di Salonicco, attraversa tutta la Macedonia storica e i monti del Pindo sino al confine tra Ieropigi (Grecia) e Bilisht
(Albania). In Grecia sono 550 chilometri.
Poi in Albania da Bilisht la tubatura attraversa la piana di Corizza, si arrampica sul monte Ostrovizza, altezza massima 2.100 metri, e poi scorre giù nella provincia di Berati verso il mare, percorre la piana di Fieri fino alla spiaggia al chilometro 215. Lì c’è la stazione di compressione Acs numero 03 e la condotta passa sotto la gestione italiana. In Albania sono 215 chilometri. Il costo del tratto albanese è nell’ordine di 1,5 miliardi.
Il tubo si immergerà nell’Adriatico, profondità massima 810 metri, e dopo 105 chilometri di percorso sottomarino sfilerà (senza uscire in superficie) sotto gli ombrelloni degli stabilimenti balneari Enso e Mamanera, contrada San Basilio, frazione San Foca, comune Melendugno, provincia di Lecce, Puglia. A un chilometro alle spalle della spiaggia, la conduttura uscirà dalla profondità della roccia calcarea e, sotterrata fra gli olivi, serpeggerà per gli 8 chilometri necessari ad arrivare all’impianto di ricezione del gas progettato alla masseria del Capitano. Non saranno abbattuti alberi. Sotto l’Adriatico saranno 105 chilometri e 8 chilometri in Puglia. Lunghezza totale 878 chilometri.
A masseria del Capitano, dove oggi si distendono un cardeto irtissimo e un seminativo abbandonato, l’impianto di ricezione
segnerà la fine del Tap dopo 878 chilometri. Ma se il Tap finirà qui, il metanodotto non è ancora finito. Un’altra società,
la Snam, dovrà collegare altri 56 chilometri di tubazione attraverso il Salento per arrivare fino località Gonella, Brindisi,
per allacciarsi al gasdotto della dorsale nazionale.
La bretella della Snam sarà lunga 56 chilometri. La lunghezza totale dal confine turco fino a Brindisi sarà 934 chilometri.
Chilometro zero, al confine con la Grecia. Il ponte di Perati
Da un lato della catena del Pindo scorre il metanodotto Tap, dal fianco opposto della montagna scende la fiumara Sarandaporo
che divide da confine l’Albania e la Grecia finché si apre nella valle del fiume Voiussa (Vjosa in albanese, Aòos in greco).
Sul confine — a un chilometro di fianco dalla dogana albanese di Tre Urat (Tre Ponti) — la valle si stringe sulla scarpata
del fiume. Lì c’è il moncone di cemento di un ponte abbattuto. Era il ponte di Perati. Lì alla fine di novembre 1940 morirono
a centinaia gli alpini della Julia.
La strada si distende lungo la sponda albanese del fiume e conduce a Leskovik e poi a Erseke e poi a Corizza; con finanziamenti
europei la strada è stata asfaltata di fresco con un fondo così perfetto che pare di poterci giocare alla raffa con le bocce;
fino all’altr’anno era una carrabile sterrata di pietrisco infame che faceva gemere le sospensioni. Sgretolato sotto la strada
c’era il villaggio di Perati, case di sasso. Il villaggio fu sbriciolato dalle bombe.
Il ponte di Perati non esiste più, esploso nel novembre ’40 dagli italiani. Su una riva c’è il troncone della spalla albanese, qualche metro di impalcato proteso nel vuoto, il cippo confinario di cemento con inciso A (Albania) e due targhe sbiadite di latta posate dagli alpini (la sezione di Verona, 19 settembre 2005; il coro Malga Roma, 11 ottobre 2011). Sulla riva opposta della fiumara c’è il moncone greco su cui era impostata la campata, con il cippo di cemento con scritto E (Ellada).
È un nonluogo, uno dei non-lieux come li aveva pensati l’antropologo Marc Augé; a Perati sul confine tra Grecia e Albania ci sono solamente gli arbusti di nocciolo, i monconi delle due spalle di calcestruzzo sulle rive contrapposte, il ghiaione della fiumara su cui bisbiglia acqua limpida che assomiglia a vetro. Il gasdotto Tap passa più a nord, lontano da qua. Eppure nel paesino di Perati che non esiste, sgretolato 78 anni fa dalle granate, e davanti al ponte che non c’è più, c’è una condensazione emotiva fortissima, un turbinare di idee, come un coro dissonante di mille urli.
Era successo che Mussolini per sciagurata vanità politica pretese di invadere la Grecia («spezzeremo le reni alla Grecia»),
e volle farlo dall’Albania occupata, e impose l’offensiva arrogante in pieno inverno vestendo i ragazzi italiani con lana
finta e scarpe di cartonato similcuoio. E invece accadde che i greci assaliti contrattaccarono la boria mussoliniana e invasero
l’Albania italiana.
Il 16 novembre 1940 quelli della Julia, pioggia infame e gelata, cominciarono a morire come mosche per difendere quel ponte
e frenare la controinvasione greca. Aggrappati alla roccia, bagnati, assiderati nelle divise in simil-lana, lerci di mota
e di sangue. La Voiussa era rossa di sangue alpino. Il fiume era rosso di sangue davvero, non è una metafora.
Il 21 novembre 1940 il Genio fece saltare il ponte e cominciò la ritirata italiana mentre i greci passavano il confine a Bilisht
e a Perati e avanzavano in Albania fino a Corizza ed Erseke e poi sempre più avanti. Ricordava Arnaldo Pellizzoni nel suo diario: «La pioggia cade a dirotto. Un ufficiale greco fatto prigioniero afferma: i Greci perderanno ma l’Albania sarà la tomba
degli Italiani».
Nella strage e nel fango gli alpini — la gente di montagna è così — riuscirono ad avere abbastanza cuore da comporre una canzone
disperata, «Sul ponte di Perati», la meglio gioventù che va sot'tera.
Oggi i resti della battaglia terribile sono asfaltati sotto la bella strada per Erseke e Corizza e sotto la dogana di Tre
Urat, dove per passare dall’altra parte del fiume tanto la Grecia è in Schengen.
Piana di Corizza, cantiere Camp2. L’orso dispettoso
Corizza (in albanese Korçe), cantiere Camp2, contrattista Spiecapag.
Nella regione del corciano, la regione di Corizza, il Camp2 è la base principale del cantiere che si arrampica sulla montagna
di Ostrovizza (in albanese Ostrovica). Nel Camp2 non ci sono impianti: è una area vasta recintata nella pianura corciana
tra Corizza ed Erseke; vi si allineano i container foderati di linoleum in cui alloggiano le squadre di lavoro. Ci sono le
abitazioni, le sale riunione, gli uffici, l’infermeria, la mensa. Una città è racchiusa nei container affiancati in file
regolari.
Qui nella piana corciana il 17 novembre 1940 i bersaglieri della Centauro e i fanti della divisione Piemonte dovettero lasciare nel fango centinaia di italiani uccisi, inseguiti dalla nona divisione del generale Alexandros Papagos e dalla quarta brigata; il terzo corpo d’armata greco il 22 novembre entrò a Corizza, e gli italiani nella piana dove oggi passa il Tap avevano il fango grigio fino ai ginocchi e nemmeno i muli degli alpini riuscivano a muoversi nella melma densa tra Corizza ed Erseke e nel villaggio di Kamenice dove oggi ci sono i container foderati di linoleum del Camp2 del Tap.
Attenzione agli animali. Sulla montagna qui sopra, nei boschi verso il passo Martas sotto il quale si sta posando il metanodotto o verso le cime dolomitiche dell’Ostrovizza, ci sono animali selvaggi. Anche orsi. E sono orsi dispettosi.
Mi raccontano che l’altr’anno i tecnici con l’elmetto giallo e con il treppiede del teodolite segnavano le misure da uno
scollinamento all’altro. Disegnavano tra vallate e monti il tracciato del gasdotto che sarebbe stato posato nell’estate 2018.
A distanze regolari di qualche decina di metri, configgevano paletti di legno: qui, un paletto qui e poi uno qui. La mattina
dopo risalivano sul monte, scendevano dal fuoristrada con il teodolite per continuare a dipingere il percorso fra i monti
e — stupore — nella notte qualcuno aveva sfilato dal terreno e disperso tutti i paletti che erano stati infissi il giorno
prima.
Allora, prima di tracciare il percorso nuovo, i geometri e gli ingegneri della Tap dovevano perdere tempo per ripiantare al loro posto i paletti del giorno prima strappati nella notte. Ma la mattina dopo — di nuovo era stato scomposto il tracciato. Dopo qualche giorno di fare-e-disfare-è-tutto-un-lavorare, il caposquadra della Tap Albania decise di nascondere con cura tra i mughi e la sassaia carsica una cinepresa con visore notturno. Visionate le immagini, si scoprì chi fossero i vandali misteriosi: di notte alcuni orsi ribelli strappavano i paletti con le zampone unghiate. Plantigradi no-Tap schierati con i movimenti nimby.
Piana di Corizza, cantiere Camp2. L’importanza dei notai
Per posare un metanodotto bisogna individuare le parcelle catastali dei terreni attraversati. Bisogna occupare lo spazio altrui
con le ruspe, spostare gli alberi, calpestare i raccolti, scavare la trincea lunga centinaia di chilometri, posarvi il tubo
e ricoprire di terra. Per condurre queste attività bisogna pagare i diritti di occupazione, secondo le diverse regole dello
Stato o delle amministrazioni locali: l’occupazione degli spazi pubblici, eventuali concessioni demaniali, le servitù di passaggio
da contrattare, eventuali risarcimenti ed espropri.
Questo accade nel resto del mondo. Ma tutto ciò diventa difficile, difficilissimo in Albania.
L’Albania è stata terra di occupazione ottomana fino a cent’anni fa, poi di occupazione italiana, e l’indipendenza piena fu ottenuta nel 1945 con la dittatura comunista di Enver Hoxha, tirannide in cui non esisteva proprietà privata e tutto apparteneva allo Stato.
Da qui il problema della società Tap. Oggi dove sono i rogiti notarili? Chi ha emesso certificati di proprietà? Sono rari
i documenti storici.
E soprattutto: come distinguere chi vanta diritti e chi invece li millanta? Chi pesta i pugni sul tavolo dicendo che quel
terreno è suo, quel terreno è davvero suo e non è una truffa o un abuso? Un lavoro particolare è stato ricostruire i diritti,
i risarcimenti e aiutare gli albanesi a poterli dimostrare.
Passo Martas e monte Ostrovizza
Al passo Martas, 1.900 metri di quota, si arriva dopo chilometri di salita in un carsaccio ispido e incoltivabile su cui ondeggia
il tracciato del metanodotto Tap. La salita del gasdotto dal Camp2 nella piana di Corizza fino al passo Martas è già stata
completata; la tubatura è stata posata e sulla trincea è stata rimessa la terra sopra alla tubazione, mentre l’erba e le piante
cominciano a ricrescere.
Più si sale in quota sulla montagna carsica e più è fresco e smosso lo scavo di argilla verde cupo e di terra resa rossa dagli ossidi di ferro. Dice il pastore: in genere qui in novembre è tutto coperto di neve. Per fortuna oggi è asciutto e c’è sole, perché quando piove o nevica l’argilla verde e la terra rossa diventano un cemento denso e profondo che ingloba i cingoli delle ruspe, le zampe dei muli, gli scarponi, le ruote dei fuoristrada.
In quota, a 1.900 metri, al passo Martas a fianco della condotta del Tap c’è un lapidari, cioè un monumento, cui è posata la targa del battalion partizan Riza Cerova (1944) e alcune tombe tra le quali la lapide del patriot Lace Backa che ivi giace.
Era il 24 novembre 1940 quando qui su questo dosso a 1.900 metri di quota spinto dall’avanzata dei greci il maggiore Salvatore
Di Natale dovette ritirare la prima e la terza compagnia della Guardia di Finanza verso il massiccio dell’Ostrovizza che pare
fatto di dolomite.
Rimase sul posto a proteggere la ritirata una pattuglia comandata dal sottotenente Marzano, già più volte ferito, con tre
finanzieri e una mitragliatrice, e i quattro finanzieri tennero testa ai greci finché ebbero pallottole da sparare, poi si
difesero con le bombe a mano, poi finite le bombe a mano si difesero con la baionetta. Il sottotenente Marzano lasciò la
Guardia di Finanza nel 1978 con il grado di generale.
Il punto più alto del metanodotto Tap è 2 .100 metri sulla montagna di Ostrovizza che divide la piana di Corizza, rivolta verso la Grecia, dalla provincia di Berati, che va verso l’Adriatico. I tratti di tubo sono allineati, pronti per essere calati nella trincea, saldati fra loro e ricoperti di terra su cui ricrescerà l’erba fitta dell’alta quota. Sole e vento gelato.
Cantavano nella canzone della Julia quelli di Perati: «Un coro di fantasmi vien giù dai monti. È il coro degli alpini che sono morti».
Mbrostar, regione della Musacchia. Due tratti a confronto
Dal culmine della collina di Mbrostar si vedono sui due versanti contrastanti i tratti della conduttura già posata. Verso levante il Tap attraversa la piana
del fiume Seman, una pianura coltivata con intensità che pare la Terra di Lavoro tra Napoli e Caserta.
Il passaggio del tubo è invisibile; le colture vi sono già cresciute e l’unica traccia in superficie per capire la presenza
di una tubatura sotterranea è l’inseguirsi di esili paletti gialli.
(Invece quando fu fotografata dal cielo la mappa satellitare di Google, il tracciato della conduttura traspariva sul terreno. Oggi non si vede già più).
Se verso levante il percorso sotterraneo del tubo non si distingue già più, invece verso ponente — dove il Tap scende verso
la foce del fiume Seman e verso l’Italia — la pista è un percorso di terra smossa che serpeggia sui dossi delle colline e
va verso la pianura costiera. Nella terra smossa dalla tubatura sono stati piantati olivi minuscoli, ai cui rami si aggrappano
grappoli di olive nere.
La società Tap ha finanziato la ricostruzione dell’acquedotto, che oggi alimenta con acqua potabile i 10mila abitanti della
zona.
Fieri, cantiere Acs03. Cento metri al metro
Tra la città di Fieri e la spiaggia, la Tap Albania sta costruendo l’Albanian Compression Station numero 03, in sigla Acs03.
L’impianto aspirerà dalla tubazione il metano che arriverà da Oriente e lo comprimerà sotto l’Adriatico verso l’Italia.
Dal confine greco vi giunge la tubatura del diametro di 1,2 metri, poi il gas entrerà nei tre grandissimi compressori da 16 megawatt l’uno, ora in fase di istallazione, dove sarà spinto alla pressione potentissima di 150 atmosfere verso l’Adriatico, passando in condotte più strette da 91 centimetri.
Il cantiere dell’Acs03 è un formicaio di macchine, betoniere, scavatrici; vi lavorano 400 persone. Il capoimpianto è l’australiano
Colin Ibbott.
Coordina il lavoro l’ingegner Giovanni Sagarìa (di Matera ma precisa «ormai sono romano di adozione), della Technip. L’ingegnere
pesarese Massimo Gallipoli descrive le linee di compressione, «quelli vicino ai cluster di raffreddamento sono 3 compressori
da 16 megawatt e comprimono verso l’Italia il metano alla pressione di 150 atmosfere».
Mi faccia capire, Gallipoli.
«Significa che quando l’impianto sarà in funzione, in un metro di tubazione saranno compressi 100 metri cubi di gas e passeranno
1,37 milioni di metri cubi l’ora, che raddoppieranno con il potenziamento successivo».
Ripeto due fra i numeri detti dall’ingegnere. In un metro di tubatura saranno schiacciati e compressi 100 metri cubi di gas.
Fieri, spiaggia, chilometro 215. La paranoia del tiranno
Al cantiere sulla spiaggia al chilometro 215 del Tap.
Il Paese dei bunker. Il dittatore comunista Enver Hoxha (1908-1985. Il cognome si pronuncia più o meno Ògia) era paranoico
come sono paranoici i despoti. Aveva la sindrome del nemico, dell’assedio, del complotto. Hoxhia immaginava che l’Albania
fosse al centro dei desideri delle potenze imperialiste (cioè tutte), preconizzava invasioni imminenti dalla Grecia, dall’Unione
Sovietica, dall’Italia, dalla Nato, dalla Jugoslavia, dagli Usa, dalla Cina. E preparava il popolo — l’esercito del popolo
— a resistere contro l’invasore immaginario costruendo bunker.
Invece di costruire strade, ponti e case per gli albanesi, Hoxha impose la costruzione di bunker in tutto il Paese: furono
posate 173mila casematte di calcestruzzo.
Alla media trilussiana di 5,7 bunker per chilometro quadro di Albania.
Bunker dovunque, bunker negli incroci in centro, bunker nel campo di rape, bunker nel cortile delle elementari, bunker nel
piazzale della fabbrica, bunker a fianco dei pollai in campagna. E bunker come piovesse anche dove oggi c’è il cantiere al
chilometro 251 del Tap. Mentre la benna distende la massicciata su cui sarà posata la tubazione che s’immergerà nel mare,
con Mauro Laverghetta, abruzzese di Vasto, ingegnere della Tap, passiamo a fianco dei residui di un bunker. Sulla duna la
cupola di calcestruzzo è rivoltata; pare il carapace rovesciato di una testuggine.
Indico a Laverghetta la casamatta ribaltata che agita verso il cielo i ferri del tondino armato come le zampette di Gregor
Samsa, e Laverghetta risponde: «Quaranta».
Quaranta che cosa?
«Quaranta bunker. Per realizzare questo cantiere ho dovuto smantellare quaranta di queste cupole di cemento».
(In Italia conosco Murad, che a Fieri era maggiore delle Forcat e Armatosura, l’esercito dell’Albania comunista. Gli racconto dei quaranta bunker che l’ingegner Laverghetta ha dovuto smantellare per realizzare il cantiere Tap. Murad stringe i pugni indignato e risponde: «Ero io il responsabile della difesa litoranea di Fieri, avevo fatto costruire io quei bunker»).
Fieri, spiaggia, chilometro 215. Parlando in veneziano
Una scavatrice sulla spiaggia prepara la massicciata di pietre da cui il tubo del Tap scivolerà nell’acqua amarissima e sparirà
nel fondo dell’Adriatico, fino a 810 metri di profondità e poi risalirà in Puglia.
Di fronte, laggiù, dove il sole illumina il tramonto, nascosto dietro la curvatura della Terra ci sono Melendugno e il Salento.
Il gasdotto dall’Azerbaigian è stato posato fino a qui, e sulla spiaggia al chilometro 215 comincia il tratto di competenza
italiana, tratto non ancora posato.
Il cantiere dell’ultimo chilometro — anche se è in Albania — dal punto di vista progettuale e costruttivo dipende dalla sponda
italiana, di cui è il terminale, e perciò dipende dalla Tap Italia.
Project manager è Johannes Irgens, norvegese; il committente Tap Italia è rappresentato dall’ingegner Laverghetta.
Vi lavorano contrattisti come la Saipem di San Donato Milanese, la Nautilus di Venezia e la lussemburghese Jan De Nul.
Il cantiere sulla spiaggia occupa la piana alluvionale della foce del fiume Seman, lagune e barene gialle di sale, canali velme canneti, sabbia grossa e pesante alternata a limo finissimo che pare il caranto d’argilla della laguna di Venezia.
Non a caso vi lavorano come contrattisti quelli della Nautilus di Venezia, il cui quartier generale è a Fusina tra lagune
e barene gialle di sale.
Loro sanno come scavare una trincea nella sabbia grossa e pesante, e nel limo finissimo, per posarvi e seppellirvi il tubo
di un metanodotto, o come infiggere nel caranto un palancolato che tenga l’acqua salsa lontana dalle velme; ecco Tiziano con il codino biondo ed ecco Stefano che vive alla Malcontenta tra canali velme e canneti, e parlano in dialetto veneziano con tutti come se tutti capissero, parlano in dialetto veneziano anche con gli
albanesi.
Ma gli albanesi sembrano comprendere benissimo l’idioma lagunare di Stefano e Tiziano della Nautilus di Venezia.
Il sole sfiora l’Amarissimo dove si può immaginare Melendugno; il braccio della benna gialla al lavoro disegna lunghissime
le ombre sulla barena incrostata di sale. Guardo il mare per 225° dove, sotto la tavola lucida di acqua illuminata dal tramonto,
a 30 metri di profondità incrostato di attinie dorme il relitto del piroscafo Firenze silurato la vigilia del natale 1940, e l’alpino Cavallotto Carlo del battaglione Borgo San Dalmazzo divisione Cuneense che andava
alla guerra non sapeva nuotare e si salvò solamente perché annaspando si era trovato sotto alle braccia una tavola di legno
— ma non sapevano nuotare neanche gli altri alpini del 2° reggimento e del Saluzzo e del battaglione Dronero imbarcati sul
Firenze che sarebbero dovuti arrivare in Albania, vestiti in simil-lana e calzati con scarponi in cartonato tipo-cuoio, per
combattere nella strage inutile pretesa dalla vanità del duce.
A terra non arrivarono mai.
Là dove oggi passa il tubo del gasdotto Tap, in quei pochi mesi furono uccisi 13mila soldati italiani, di altri 3.900 non
si ritrovarono nemmeno i resti, 12mila subirono congelamenti agli arti, 50mila furono feriti.
Per avere un’idea, questo reportage è formato in tutto da 19.500 caratteri di stampa, compresi virgole e punti. Ognuno di
questi segni, un italiano morto laggiù dove sta finendo la posa di un tubo che unisce i popoli.
Canta il coro degli alpini di Perati: «Queli che son partiti non son tornati».
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