TOKYO - Essere il numero 2, o anche il numero 5 o 10, e guadagnare più del Chief Executive che ha la responsabilità suprema dell’azienda. Secondo alchimie manageriali che non sempre producono oro, in Giappone queste dinamiche accadono e finiscono per suscitare controversie, anche perché di solito i supercompensi vanno a dirigenti stranieri. Prediamo il caso della Toyota: nell’ultima annata, il gruppo automobilistico ha pagato il suo primo Executive vicepresidente straniero circa il doppio rispetto al Ceo, Akio Toyoda. Quest'ultimo ha ricevuto compensi per 351 milioni di yen (3,43 milioni di dollari) suddivisi in uno stipendio base invariato a 102 milioni e un bonus ridotto di un milione a 248 milioni di yen.
Didier Leroy, diventato Executive vice president nel giugno scorso (ma in Toyota dal 1998 dopo esperienze alla Renault) ha portato a casa in un anno 696 milioni di yen per sovrintendere alle attività nei Paesi avanzati (Usa, Europa e Giappone). Otto dirigenti Toyota hanno superato la soglia di compensi per 100 milioni di yen che fanno scattare la clausola di “disclosure” al pubblico, tra cui il chairman Takeshi Uchiyamada (che si è fermato a quota 201 milioni di yen).
Akio Toyoda avrà avuto le sue ragioni per non invidiare il sottoposto che guadagna il doppio di lui: come esponente della famiglia alla quale risale la fondazione del gruppo, la sua è una “mission” quasi religiosa a servizio di tutti i fedeli stakeholders della società. Se è a capo della Toyota non è per fare più soldi possibile. Trattenere un supermanager di cui fidarsi, insomma, per lui è davvero importante anche se oneroso. Del resto, il capo della Toyota guadagna quasi tre volte meno del capo della Nissan.
I compensi di Carlos Ghosn (che è anche numero uno di Renault) sono da anni oggetto di dibattito pubblico, non sempre benevolo. Per la seconda annata consecutiva, Ghosn alla Nissan ha guadagnato più di un miliardo di yen. A 1,07 miliardi di yen (circa 10 milioni di dollari) nell’anno fiscale 2015 il suo compenso è salito di “soli” 36 milioni di yen rispetto a un anno prima. Ma il Ceo di Nissan fa la figura del povero rispetto a Nikesh Arora, numero due alla SoftBank, che nella scorsa annata ha incassato 8,04 miliardi di yen dopo aver incamerato ben 16,5 miliardi di yen nei sei mesi precedenti. Ai livello di cambio attuali, insomma, in un anno e mezzo Arora ha intascato una cifra mostruosa vicina a 240 milioni di dollari.
Il manager indiano di Google era stato assunto nel settembre 2014 dal patron di SoftBank, Masayoshi Son, come sue vice ed erede. Peccato che, il giorno prima dell’assemblea di questo giugno, sia arrivata la notizia delle improvvise dimissioni di Arora con effetto immediato. La giustificazione ufficiale è stata che Son, 58 anni, ha cambiato idea su sé stesso: non vuole più andare in pensione a 60 anni, ma restare alla guida della società per altri 5-10 anni. Nessun rancore dichiarato, anzi Son si è scusato con Arora. Ma c’è chi pensa che ci sia sotto dell’altro. In ogni caso vari osservatori e anche azionisti, di fronte al megabonus offerto ad Arora in sede di assunzione, si erano dichiarati perplessi di fronte a una scommessa tanto rilevante su una singola persona. Del resto, alcune delle acquisizioni promosse da Arora si stanno rivelando tutt’altro che azzeccate. Il Ceo Masayashi Son si è fatto dare l’anno scorso solo 130 milioni di yen, una frazione anche dei compensi da 2,09 miliardi di yen assegnata al suo dipendente Ronald Fisher (strategie internazionali).
Fenomeni analoghi si verificano alla Hitachi, dove il responsabile negli Usa John Domme si è intascato 900 milioni di yen, più di cinque volte il compenso del presidente Hiroaki Nakanishi (161 milioni di yen). Il trend di pagare alcuni manager stranieri più di tutti era andato sotto i riflettori dal 2009, quando, in seguito all’acquisizione delle attività in Europa e Asia di Lehman Brothers, Nomura confermò i bonus ai livelli precedenti a un gran numero di manager neo-acquisiti. Molti di loro, però, dopo i due anni di superbonus garantiti, a mercati in ripresa, se ne andarono. Così non sono pochi i giapponesi che osservano: sarà anche opportuno assumere e trattenere manager stranieri di valore, ma aleggia sempre il rischio che il loro “commitment” verso l'azienda giapponese che li strapaga non sia tanto alto. Minore, certo, di quello della fascia di middle manager giapponesi che danno tutto all’azienda e non si sognerebbero mai di tradirla.
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