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La bacchetta magica di Putin: così la Siria ha messo in ombra…

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CAMBIO DI AGENDA

La bacchetta magica di Putin: così la Siria ha messo in ombra l’Ucraina

I famosi “boots on the ground”, cogliendo tutti di sorpresa, li ha messi giù lui per primo. Che si tratti di scarponi di addestratori, di piloti o di soldati semplici, in terra di Siria: «Erano nostri amici, ora sono nostri fratelli», dice dei russi un ragazzo di Latakia all'agenzia Afp. E così, con un colpo di bacchetta magica, il Vladimir Putin che si presenterà oggi all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite non è il leader isolato di un Paese sospettato di volerne invadere un altro, messo all'indice per il ruolo che la Russia è accusata di giocare nel Donbass ucraino. No, queste sono le immagini del G-20 australiano del novembre scorso, quando il presidente russo se ne venne via da Brisbane addirittura in anticipo.

Quest'anno, nel giro di poche settimane Putin è riuscito a cambiare agenda e carte in tavola, e a spostare l'attenzione altrove. Dai primi di settembre il cessate il fuoco tra Donetsk e Luhansk si è fatto serio: gli ordini da Mosca, dicono i separatisti, è evitare a tutti i costi un'escalation. Dai primi di settembre, al contrario, aerei cargo russi atterrano ogni mattina a Latakia, scaricando uomini e mezzi. Anche le tv russe hanno cambiato programma, non più Ucraina ma Siria a tutto campo, massimo risalto. A New York, a Palazzo di Vetro che in questi giorni si fa crocevia del mondo raccogliendo oltre 150 leader, Putin intende celebrare il proprio ritorno da protagonista sulla scena internazionale. Lui e la sua Russia elementi indispensabili nella lotta del mondo contro il terrorismo, che in questo momento è soprattutto lotta contro lo Stato islamico in Siria e in Iraq. Alla coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti, all'Europa disorientata dall'arrivo dei profughi siriani, Putin vuole mostrarsi in grado di prendere l'iniziativa e agire. Lo sta già facendo, puntualizza l'intelligence israeliana che ogni giorno monitora il “buildup” russo oltreconfine: il 24 settembre scorso - scrive Debkafile - marines russi avrebbero già ingaggiato battaglia contro le forze dell'Isis presso la base Kweiris a est di Aleppo. Qui, il contingente dei jihadisti sarebbe dominato da combattenti venuti dal Caucaso, ceceni.
E questo è sicuramente uno dei motivi principali che spingono Putin in Siria.

L'allarme dei servizi segreti russi per l'alto numero di combattenti che dalla Russia e dall'Asia Centrale stanno andando a ingrossare le fila dell'Isis: la sua avanzata riaccende la minaccia dell'estremismo islamico che dal Medio Oriente può sconfinare in terre russe, o ex sovietiche. Per Mosca, il sostegno al regime di Bashar Assad come baluardo contro la jihad è diventato un imperativo, attorno a cui Putin ha costruito in questi ultimi giorni una fittissima ragnatela diplomatica. Lunedì scorso l'israeliano Benjamin Netanyahu, martedì il palestinese Mahmoud Abbas, mercoledì il turco Recep Tayyep Erdogan: uno dopo l'altro al Cremlino, da cui negli ultimi due mesi sono passati anche l'egiziano Abdel Fattah al-Sisi, re Abdallah II di Giordania. Domenica, dopo la conferma da Baghdad che Russia, Siria, Iraq e Iran costituiranno un centro comune di raccolta informazioni per coordinare la lotta contro l'Isis, Putin è passato al campo sunnita degli avversari di Assad e ha chiamato al telefono re Salman d'Arabia. Domenica anche il presidente iraniano Hassan Rohani si è detto pronto a collaborare con gli Usa per cacciare l'Isis. “Sto cercando di mettere insieme un quadro di coordinamento” contro i jihadisti, ha spiegato il presidente russo in un'intervista concessa alla tv americana Cbs, alla vigilia della partenza per gli Stati Uniti.
E' quello di cui Putin vuole parlare con Barack Obama, dopo gli interventi all'Onu. Che il presidente americano abbia accettato di incontrarlo - dopo due anni - è un altro “frutto” del colpo di mano siriano di Putin. Sarebbe “irresponsabile”, avrebbe concluso Obama, non verificare se la Russia è pronta a giocare un ruolo più costruttivo in Siria. Come minimo, americani e russi ora hanno bisogno di coordinare il cosiddetto “deconfliction”, comunicarsi i piani di volo sui cieli siriani per evitare incidenti. Ma se Putin e Obama riuscissero anche a trovare un punto di incontro relativamente al destino di Assad e alla transizione politica a Damasco - un'uscita di scena del dittatore siriano concordata - l'ora che i due leader passeranno finalmente insieme potrebbe portarli più lontano. Oltre la Siria, naturalmente in Ucraina: che peraltro la Casa Bianca vorrebbe fosse l'argomento principale del colloquio, mentre Dmitrij Peskov, portavoce di Putin, la mette all'ordine del giorno solo “se ci sarà tempo”.

In realtà, se la Siria è per lui la chiave del ritorno in scena, al centro dei pensieri del presidente russo c'è l'Ucraina. Più di Damasco e di Assad Putin ha a cuore il proprio destino, la grandezza e la stabilità della Russia, la considerazione del mondo. E questi passano dalla fine dell'isolamento, da una ripresa dell'economia, dalle elezioni del 2018 in cui Putin vuole una riconferma, dai Mondiali di calcio russi dello stesso anno. Probabilmente il primo obiettivo del Cremlino è mettere a tacere le armi dei separatisti per il tempo necessario a ottenere un allentamento delle sanzioni, magari negoziare qualche altro passo avanti negli accordi di Minsk per dimostrare buona volontà. Non bisogna lasciare che basti. Il silenzio della guerra nel Donbass non è l'inizio della vera pace: mentre quest'autunno si andrà a elezioni locali separate, che le due parti non si riconoscono a vicenda, gli accordi di Minsk non prevedono neppure il ritorno di Donetsk e Luhansk a Kiev. La vera soluzione del dramma ucraino sta in un lungo cammino che riporti dialogo e comprensione attraverso la Linea di controllo, attraverso il baratro che separa Mosca e Kiev, attraverso il gelo che continua a regnare tra Mosca e Washington. L'incontro tra Putin e Obama potrebbe segnare il primo passo per riprendere il cammino, dalla Siria passare per l'Ucraina e per i sistemi antimissile nell'Europa orientale. Ci vorrà tutta la fiducia del mondo per crederci, e il coraggio di leader grandi per provarci.

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