Mondo

Primarie Usa, i comizi dei candidati in presa diretta

  • Abbonati
  • Accedi
Elezioni Usa

Primarie Usa, i comizi dei candidati in presa diretta

DES MOINES, IOWA – La città è ancora tranquilla, c'è un sole luminoso e un senso di attesa. Per la bufera di neve in arrivo stanotte, che paralizzerà aeroporti e bloccherà domani mattina politici, analisti, giornalisti già pronti per andare in New Hampshire. Ma soprattutto per la grande avventura del caucus, la grande avventura assembleare che determinerà in circa 1600 seggi i primi vincitori di questa lunga stagione elettorale americana.

Oggi nessun comizio, nessun appuntamento, molto silenzio e molto lavoro dietro le quinte, il piu' importante per influenzare il voto di stanotte. Già perché in un caucus gli elettori si riuniscono per gruppi che appoggiano questo o a quel candidato, dibattono, cercano di strapparsi elettori e se un gruppo scende al di sotto di certi limiti proporzionali deve sciogliersi e scegliersi un altro candidato.

Come andrà a finire? Un’idea me la sono fatta ieri notte agli ultimi comizi: per ora in Iowa, in queste pianure sterminate che fanno da granaio permanente all'America emergono due candidati di punta. Da una parte, fra i democratici, Hillary Clinton. Dall'altra fra i repubblicani, Donald Trump. Oggi la corsa anche a distanza è fra loro due. Ma tutto potrebbe cambiare anche perché a vedere alcuni dei numerosi candidati da vicino – con Trump a Sioux City, ho seguito prima Bernie Sanders, poi Hillary, infine Cruz - ci si accorge che ci sono due fenomeni paralleli.

Da una parte la percezione nazionale, attraverso i media, i dibattiti le analisi, le dichiarazioni che danno l’idea di un’America frustrata, inappagata, preoccupata, alla ricerca di un leader solido. Con ciascuno dei leader che appare, attraverso il filtro dei media, organizzato strutturato di statura piu' o meno elevata.

Dall'altra, c’è la presa diretta dei comizi, le visite come ho fatto ieri nell'ultimo giorno di incontri pubblici, c'e' la presa diretta che rivela confusione e spesso disorganizzazione. E dai tre comizi, dal confronto a distanza che ho seguto ieri emerge un fatto inconfutabile: la campagna di Hillary Clinton, guidata dalla mano di John Podesta, un veterano della politica che combina grande intelletto e grande forza organizzativa, è di gran lunga la macchina elettorale migliore. L’apparenza esterna, il coinvolgimento da stadio dei comizi tradizionali molto più costosi e molto più complessi sul piano organizzativo in questo 2016 sembrano appartenere soltanto a Hillary Clinton e in seconda battuta a Donald Trump. Per gli altri, qui in Iowa, dove si lavora dal maggio scorso e dove fra poche ore cominceranno i caucus, gli incontri ravvicinati con gli elettori danno la percezione in generale, di macchine elettorali ruspanti e di candidati che puntano sui loro slogan, sulla loro personalizzazione e soprattutto sulla disseminazione elettronica del loro messaggio.

IN PRESA DIRETTA

BERNIE SANDERS

Da Bernie Sanders, all'università di Des Moines ci sono moltissimi giovani. La caratterizzazione di questa campagna è incredibile sul piano del rapporto, un uomo che sembra anche più vecchio dei suoi 74 anni, voce rauca capelli bianchissimi diventa il profeta della montagna, il politico disinteressato che lavora per il Cittadino e non per i grandi interessi. Da lui il termine più gettonato è «rivoluzione»: rivoluzione per il suo messaggio, rivoluzione per la mobilitazione, rivoluzione per come I “poteri forti” sono stati soppiantati dal Cittadino: «Ricordatevi solo di una cosa – prova a urlare Sanders dal podio in mezzo alla gente, comizio normale senza star quality – le rivoluzioni partono sempre dal basso, mai dall'alto. La forza del cambiamento siete voi». La risposta è di grande passione. C'è in effetti qualcosa di elettrico nella campagna e nella base di Sanders, c'è il contagio di crede nella possibilità del cambiamento. Otto anni fa lo si sentiva con i comizi di Barack Obama, con una differenza: la forza del messaggio dal podio era quella di un giovane afroamericano alto slanciato, che al di là del messaggio poteva fare storia come primo Presidente nero degli Stati Uniti d'America.

Questo per dire che Sanders non ha lo stesso carisma del Presidente in carica, ma riesce a coagulare lo stesso, per la sua spontaneità, per la sua passione disinteressata, per la sua autonomia da influenze esterne (se non quella del sindacato delle infermiere che gli ha dato fondi importanti) l’ideale del nuovo soprattutto fra i giovani. «Il maggio scorso non avevamo un nome riconoscibile e non avevamo un dollaro - incalza Sanders - nessuno dei commentatori credeva in noi, oggi le cose sono cambiate». Lo sono davvero, perché Sanders fa sentire il fiato sul collo di Hillary, vanta un 42% medio delle preferenze nei sondaggi contro il 45% della ex First Lady. I temi forti di Sanders? Uguaglianza, redistribuzione, progresso sociale finanziamento di progetti infrastrutturali che potrebbero dare lavoro a 30 milioni di americani. Come? «Ve lo dico io come: tassando le migliaia di miliardi di dollari che le grandi corporation tengono alle Cayman Island. Guadagano, fanno profitti, ma poi non li rimpatriano». Il suo è un modello scandinavo/britannico/europeo continentale: «Tutti i paesi europei sono avanti a noi in materia sociale: assistenza sanitaria gratuita, scuola gratutia di ottima qualità almeno tre mesi a casa quando hai dato alla luce un bambino. Tutto questo da noi non c'è. E' questa la misura del nostro benessere?» La folla esplode di nuovo. Difficile sapere davvero come si potranno finanziare I progetti di Sanders. Ma la logica c'è tutta. Il messaggio funziona. Il sogno che cercano i giovani senza lavoro è realtà. E il vecchio li prende per mano facendogli immaginare il possibile. Ce la farà in Iowa? Vedremo questa sera. Sembra difficile. Come sarà difficile dopo il New Hampshire mantenere il ritmo di una campagna elettorale comunque costosa. Ma la forza del suo messaggio ha comunque scosso il paese. E ha dato un brivido alla campagna di Hillary.

HILLARY CLINTON
L'appuntamento è alla Lincoln High School di Des Moines, una di quelle scuole modello americane, enorme palestra che sembra uno stadio dove sul podio appiano all'improvviso Bill e Chelsea Clinton. Il pubblico è misto, meno giovani, meno atmosfera goliardica, ma il pubblico è solidamente misto. E' l'ultimo affondo di Hillary, ancora incredula per l'improvvisa ascesa di Sanders. Sul palco a scaldare la folle non ci sono giovani attori di modesto calibro o politici locali di minore importanza come ha sfoderato Bernie Sanders ci sono invece Bill Clinton e la figlia Chelsea. Sono loro a parlare. Fra il pubblico politici locali di calibro o passato nazionale. La macchina di Hillary è potente. Ma il paradosso è che nell'era di Internet è questa stessa potenza ad averla messa in difficoltà. Attacca Chelsea: «Non credo di poter vantare genitori migliori dei miei, sono stata fortunata, ma voglio che tutti sappiate che questa fortuna riguarda tutti noi, perché mia madre è la persona, la donna migliore per guidare il Paese» dice rilassata, matura, annuncia di avere un secondo figlio in arrivo, poi presenta il padre, Chelsea lo chiama Papa, senza accento sulla a. E' il turno di Bill, ha la voce rauca, ma è pur sempre Bill Clinton. L’accoppiata è vincente per scaldare la folla. Con un problema: ci si avvia con Bill su “memory lane” sul viale dei ricordi: «Ricordate che cosa abbiamo fatto con l'economia negli anni Novanta…? Lo RIFAREMO», dice Bill. Peccato che il modello di sviluppo sia cambiato, che la Cina sia esplosa e che il mondo abbia perso quel dividendo per la pace che fece da grande motore per la ripresa con la fine della Guerra fredda.

Ecco, questo è uno degli esempi della disfunzione fra messaggio percepito a livello mediatico e quello che invece arriva nello stadio al comizio, perché subito dopo arriva lei, la star. Hillary ha imparato ad avere una star quality che non aveva e anche questo si perde leggermente nel contesto mediatico dell'infocom ma lo si sente live. Perfetto tailleur grigio, ma soprattuto voce grintosa, energica.

Dà un ritmo al suo discorso che batte di gran lunga sugli stessi temi (autostrade, ponti, lavori pubblici) quello di Sanders. I democratici parlano più o meno delle stesse cose: lo scandalo del debito degli studenti che cominciano a lavorare con prestiti da ripagare fino a 80/100.000 dollari per pagarsi un'università sempre più cara; strade a pezzi, ponti che crollano da ricostruire; Sistema sanitario che va migliorato; l'avidità di Wall Street che porta l'economia finanziaria a minacciare l'economia reale; la mancanza di punizioni per chi ha rovinato il paese; reminiscenze del New Deal con le promesse di interventismo statale per restituire alla classe media la dignità perduta.

I temi sono paralleli e non si capisce davvero dove sia la rivoluzione di Sanders rispetto a quella che propone Hillary. Anche perché a vederla dal podio a sentire la reazione delle gente un verità resta inconfutabile: Hillary è di gran lunga la più brava di tutti, la più preparata, la più rassicurante quando si deve pensare di scegliere il prossimo presidente degli Stati Uniti d'America. E non solo in campo democratico a parte forse Jeb Bush. Ma il suo problema è chiaro ha molto “bagaglio” pesante come si dice da queste parti rispetto alla leggerezza di Sanders. Hillary è sotto inchiesta dell'FBI per i messaggi inviati dal suo server personale e almeno 21 messaggi risulta oggi, erano top secret; ha un passato pervaso da collusione fra potere e affari; il marito con la sua Fondazione fa business con paesi stranieri che potrebbero portare la loro influenza alla Casa Bianca; usa i “Superpac” veicoli per convogliare senza limiti fondi private alla campagna di questo o quell concorrente; solo George Soros, il discusso finanziere, le ha dato 6 milioni di dollari. Ma tutto questo, che l’ha danneggiata sul piano dell'immagine aiutando allo stesso tempo Sanders, sparisce alla Lincoln High School. Hillary appare forte e in forma, sicura di sé, pervasa da una statura di leadership solida e non fittizia: «Quando ero segretario di Stato ho dovuto gestire situazioni di crisi e credetemi c'è molta differenza fra il discutere un argomento in modo intuitive e approfondirlo al tavolo di lavoro, per questo sono il candidato migliore non solo fra i democratici ma di gran lunga fra i repubblicani che parlano senza sapere».

TED CRUZ
L'appuntamento è in un capannone a ridosso di un complesso industriale. C'è anche qui una struttura scolastica, ma i contorni si perdono nella notte scura dell'Iowa e nell'oscurità della perfieria di Des Moines dove sono arrivato per sentirlo. Il pubblico è seduto per terra, gambe incrociate, un pubblico misto, giovani puliti e un misto di città e campagna fra gli adulti: «Grazie per essere venuti – comincia Cruz, il tono pacato, il ritmo lento – siamo arrivati ai margini dell'oscurità in America, abbiamo avuto un presidente che ci ha rovinato e abbiamo purtroppo dei candidati democratici che ci promettono di restare sulla stessa strada, ma non vi preoccupate, perché “Help is on the way”, l'aiuto è in arrivo». Nel finale alza leggermente il tono della voce, il pubblico risponde. Poi riprende con un crescendo sui temi caldi che infiammano i repubblicani conservatori che formano il 90% dell'audience: «I fondi pubblici per l'aborto? Spariranno? Il fisco? Licenzierò i 90.000 agenti e potremo pagare le tasse su una cartolina con un'aliquota fissa e basta. I nostri soldati? Torneranno ad essere l'orgoglio della nostra nazione».

Ted Cruz, senatore del Texas, non è soltanto un conservatore repubblicano, è un predicatore religioso prestato alla politica. La tecnica del suo intervento è assimilabile a quella dei predicatori della coalizione cristiana con aperti riferimento all'importanza di Dio di Cristo nella vita di ogni giorno: «Vi chiedo di pregare, pregate ogni giorno, ogni mattina, non dimenticatelo mai». Qualcuno è in lacrime. Ma Cruz ha un problema: si chiama Donald Trump. Lo segue a ruota nei sondaggi, ma il distacco è forte. Questa sera sarà determinante vincere. Potrebbe anche farcela, ma riuscirà ad imporsi su base nazionale al di la' del pubblico delle primarie, fatto di conservatori attivisti? La risposta è no.

La sua bestia nera, Trump, è riuscito a colpire l'immaginazione della base del partito grazie alla sua sicurezza al suo decisionismo, ma ha un respiro molto più ampio, è religioso ma non è un predicatore. Cruz preoccupa davvero per l'estremismo del suo pensiero. Per questo l'establishment del partito punta tutto su Marco Rubio.

La corsa repubblicana è molto piu' complicata di quella democratica. In partenza c'erano I governatori, tradizionalmente gli aspiranti con credenziali nella corsa per la Casa Bianca: Chris Christie del New Jersey, John Kasich dell'Ohio, Jeb Bush ex governatore della Florida. Fra questi l'uomo forse meno grintoso sul piano mediatico ma piu' preparato sul piano politico è Bush. Seguono Kasich, appoggiato l'altro giorno dal New York Times e Christie, indebolito da uno scandalo per abusi di potere nel suo stato (i suoi luogotenenti bloccarono il traffico con lavori fittizi in una cittadina per punire il sindaco democratico che non lo aveva appoggiato!). Ebbene, nell'era della protesta anti-establishment i governatori sono spariti: questa notte avranno risultati magrissimi e forse alcuni, ma non Jeb Bush, usciranno dalla gara.

Nell'ordine, i sondaggi danno Trump al 28%, Cruz al 23%, Rubio, risalito negli ultimi giorni al 15% e Ben Carson il patetico ex neurochirurgo al 10%. Su base nazionale pero' Trump ha il 35% contro il 19% di Cruz.

Dalle visite locali, dalla presa di contatto diretta con i candidati qui in Iowa e' difficile immaginare che un Trump, se dovesse vincere la nomination cosa oggi probabile, possa battere Hillary Clinton, intelligente, aggressiva e preparatissima sui dossier e, soprattutto, con la possibilità di fare storia tre volte: come prima donna alla Casa Bianca; come primo esempio di staffetta fra moglie e marito alla presidenza americana; come massimo della preparazione avendo già servito il Paese alla casa Bianca in qualità di First Lady, come senatore dello stato di New York, come segretario di Stato.

Adesso la decisione passa ai cittadini dell'Iowa, grande territorio con soli 3 milioni di abitanti: saranno loro nella bizzarria e nella forza della democrazia americana a determinare vincitori e vinti. Con una sentenza che per molti sarà definitiva.

© Riproduzione riservata