
Sirte, Falluja, Aleppo. Libia, Iraq e Siria. Due di queste grandi città, simbolo dell’impero dell’Isis, potrebbero presto cadere. A Sirte e a Falluja gli eserciti di Iraq e Siria sono infatti arrivati alla stretta finale. Ad Aleppo, invece, l’Isis controlla solo alcune aree marginali. Buona parte degli altri quartieri sono in mano a una costellazione di gruppi armati sovente in guerra fra loro, e in guerra con il regime di Damasco. Qui si combatte una guerra dentro la guerra. Qui si preannuncia l’assedio più lungo.
In questi tre grandi centri, strategicamente importanti, le cicatrici della guerra hanno lasciato un segno indelebile sul loro tessuto urbano: interi quartieri ridotti in macerie. Bombardamenti che scandiscono le ore del giorno. Ospedali distrutti, non di rado colpiti intenzionalmente. Sono città dove la conta dei morti è aggiornata con cadenza quotidiana. Dove le scuole sono chiuse e mancano beni di base, come cibo e medicine. Decine di migliaia di civili rimasti intrappolati si preparano ora all’atto finale, l’assedio.
Conosciuta come il quartier generale dei gheddafiani, la città costiera di Sirte è divenuta nel 2015 la roccaforte dello Stato islamico in Libia. Qui, il 7 giugno del 1942, è nato Muammar Ghedaffi, sostenuto dalla sua potente tribù, i Warfallah. E qui, dopo 43 anni di regime, ha trovato la morte, il 20 ottobre del 2011. Iniziata tre settimane fa, la controffensiva delle forze di Misurata, insieme a quelle del nuovo Governo di accordo nazionale, di cui sono alleate, è stata più rapida del previsto. Due giorni fa hanno conquistato il porto della città. E ieri alcuni edifici centrali. Protetti dai cecchini e da trappole esplosive gli ultimi jihadisiti si preparano a vendere cara la pelle. Seimila famiglie sono riuscite fuggire, mettendosi in salvo. Le altre, come a Falluja, rischiano di essere usate come scudi umani. La capitolazione della capitale libica dell’Isis sarebbe un durissimo colpo ai disegni dello Stato Islamico.
Anche a Falluja l’assedio è già iniziato. Per scongiurare una spirale di sanguinose rappresaglie contro la comunità sunnita, le milizie sciite filo-iraniane, che hanno composto la spina dorsale durante l’avanzata iniziata lo scorso 23 maggio, sono state tenute fuori dall’offensiva finale. Eppure si sono già macchiate di crimini efferati contro i civili in fuga dalla città, torturati e giustiziati perché sospettati di collaborazionismo con l’Isis. Falluja era un spina nel fianco del Governo iracheno. Agli occhi del premier Haydar al-Abadi, la città rappresenta la testa del serpente. Troppo vicina a Baghdad, appena 69 km, per non cercare di tagliarla prima che possa mordere ancora. Molti dei kamikaze che solo in maggio hanno ucciso 200 persone a Baghdad arrivavano proprio da questa città, nel cuore della provincia sunnita di al-Anbar. Falluja si è guadagnata nel corso degli anni la nomea di roccaforte dell’estremismo sunnita.
Già nel 2003, pochi mesi dopo la capitolazione di Baghdad (aprile 2003) , si concentrò in questo centro di 400 abitanti (allora) la resistenza sunnita. I marines la ripresero nel 2004, ad un prezzo altissimo. Ma si ritirarono poco dopo. Ricorrendo a pesanti bombardamenti, in cui non esitarono – secondo diverse fonti – a impiegare bombe al fosforo, riuscirono a piegare la resistenza dei gruppi qaedisti. Il risentimento anti americano, anti-occidentale ed anti–sciita è sempre stato alto in queste aree. Ecco perché Falluja è stata la prima città conquistata dall’Isis, nel gennaio del 2014, cinque mesi prima di proclamare la nascita dello Stato islamico. Quando ancora non aveva messo le mani su Raqqa, la sua “capitale” in Siria, e quando Mosul, conquistata nel giugno del 2014, sembrava un obiettivo ambizioso.
In quella che un tempo era conosciuta come la più grande città della Siria, con oltre due milioni di abitanti, ed il suo polo economico, la guerra si trascina da quasi quattro anni. Era il luglio del 2012, quando i ribelli sbaragliarono le forze del regime, conquistando più della metà di Aleppo. Da allora una guerra di attrito si trascina giorno dopo giorno. Nel novembre del 2012, quando i combattimenti erano particolarmente violenti ai pochissimi giornalisti presenti la città si presentava con un aspetto surreale. Nel quartiere Tarek al Bab, la clinica più vicina al fronte, poi rasa al suolo, curava i feriti anche sui marciapiedi. I medici lavoravano 20 ore al giorno, e gli studenti di veterinaria suturavano dopo gli interventi chirurgici di urgenza i copri martoriati di civili e guerriglieri. In quel periodo gli appartamenti più cari, da affittare, non erano gli attici, ma quelli più bassi. Dove si poteva coltivare la speranza di sopravvivere se una bomba colpiva il tetto di un palazzo. Le finestre erano coperte da cartoni affinché non fossero un invito ai cecchini. Sempre per sviare i cecchini, che non esitavano a sparare sui civili, nelle strade più esposte i ribelli avevano attaccato ai lati dei grandi teli. E in questa città di macerie si camminava in una luce azzurra e verde mescolata al fumo.
Oggi è come allora. Gli ospedali continuano ad essere colpiti. Solo tre nell’ultima settimana. Lo sguardo spento della popolazione, e l’indifferenza dei bimbi al boato dei tiri di mortaio, raccontano meglio di tante cose l’immunità al terrore, ma anche alla vita. Oggi il regime ha guadagnato importanti posizioni intorno alla città. E si prepara a sferrare l’ultima, grande battaglia. È qui che si giocherà il destino della Siria. Ed è qui che si preannuncia l’assedio più difficile. E potrebbe consumarsi una tragedia dalle proporzioni difficili da immaginare.
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