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I rischi che l’Europa non vuole vedere

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L'Analisi|brexit e mercati

I rischi che l’Europa non vuole vedere

«Sono democratiche solo le decisioni prese dai parlamenti nazionali? Beh, allora siamo coerenti e chiudiamo l’Unione europea» sbotta un alto funzionario della Commissione Ue. Forse non sa o non vuol sapere, l’incauto, quanto la sua provocazione rischi di diventare prima o poi realtà.
Non bastava Brexit a scrollare quasi tutte le certezze europee del dopoguerra. Non bastava il germe di una grande crisi bancaria europea, epicentro in Italia, a scatenare nuova destabilizzazione dentro l’eurozona e la neonata ma troppo imperfetta unione bancaria europea, che pure si continua a non voler completare.

Ci voleva anche il Ceta, l’accordo di libero scambio tra Ue e Canada, partorito dopo ben 5 anni di negoziati, a seminare confusione. E ad alimentare una feroce guerra inter-istituzionale, che potrebbe concludersi con il definitivo affossamento del modello disegnato dai Padri Fondatori e il principio di un’Europa tutta intergovernativa, depurata di ammortizzatori istituzionali capaci di distillare l’interesse comune dal caos degli interessi nazionali contrapposti, di un’Europa più squilibrata perché dominata dalla nuda legge dei più forti. Di direttorii più o meno conclamati.

La prospettiva è inquietante ma tutt'altro che peregrina.

I Trattati Ue fanno della Commissione il negoziatore degli accordi commerciali su mandato del Consiglio, cioè dei governi. Una volta raggiunti, gli accordi vanno approvati dal Consiglio e ratificati dall’europarlamento. Così dovrebbe andare anche per quello Ue-Canada. Invece no.

A parte l’Italia, che si batte per il rispetto della procedura classica, l’unica che può garantire tempi ragionevoli per l’entrata in vigore del nuovo accordo, la maggioranza, in testa Germania, Francia, Belgio e Austria, pretende invece di coinvolgere nella ratifica, per “ragioni democratiche”, anche i rispettivi parlamenti nazionali. In questo caso sarebbero ben 38 (regionali compresi) quelli chiamati a pronunciarsi.

La ratifica finirebbe alle Calende greche o magari su un binario morto. Motivo? Alla vigilia delle elezioni del 2017 in Olanda, Francia e Germania, nessun governo vuole inimicarsi euroscettici e anti-mondialisti che intendono colpire l’incolpevole Canada, dagli standard simili a quelli europei, per atterrare il Ttip, l’analogo accordo che l’Unione sta negoziando con gli Stati Uniti. Senza grandi speranze.

La Commissione Juncker oggi potrebbe decidere di tirare comunque dritto per la sua strada, costringendo i governi o ad allinearsi oppure a votare all’unanimità per poter decidere a modo loro. Avrà il coraggio di farlo?

La squadra Juncker è sotto attacco come mai era successo all’istituzione. La Germania chiede la testa del presidente, stanca delle sue sfide: sulla politica commerciale, non a caso in odore di parziale rinazionalizzazione, sulla gestione troppo flessibile del patto di stabilità che ne distorce le regole e nullifica le sanzioni (vedi Spagna e Portogallo), sulla politica migratoria come, a fasi alterne, anche sulla conduzione della politica di concorrenza.

Per questo da tempo Berlino medita di depotenziare ruolo e poteri della Commissione creando Agenzie indipendenti: una per l’Antitrust, un’altra per mettere al riparo da giudizi politici e sanzioni le performance economiche dei Paesi dell’euro. Medita anche di sottrarle, a favore del presidente del Consiglio Ue Donald Tusk, il ruolo di negoziatore su Brexit. Juncker sarebbe troppo vetero-europeista, integrazionista, federalista.

«Di fronte a demogogia e euroscetticismo è tempo di pragmatismo, non di grandi visioni, la situazione è grave come non mai. Invece di pensare a riforme e nuovi Trattati si devono fare progressi sulla crisi dei rifugiati, sulla disoccupazione giovanile e altri problemi concreti» avverte il tedesco Wolfgang Schäuble. E aggiunge: «Se all’inizio non tutti i 27 Paesi Ue vogliono mettersi insieme, cominceremo con pochi. Se la Commissione non ci sta, risolveremo i problemi fra governi».

La metamorfosi dell’Europa, dunque, minaccia di cominciare scardinando l’ordine costituito. Federalismo rischia di diventare una brutta parola, almeno fino a quando sistemi e rischi-Paese non torneranno a convergere in modo credibile. Per l’Italia in piena bufera bancaria, la sfida della modernizzazione e della competitività diventa ancora più cruciale da giocare e vincere per conquistarsi un posto stabile nella nuova Europa. Che potrà assomigliare alle sue aspirazioni soltanto se rimetterà ordine, e al più presto, in casa propria. In sintonia, si spera, con i partner. Nel mondo globale l’Europa post-Brexit ha bisogno di ricompattarsi, non di cedere alle sirene del rompete le righe.

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