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Dai datteri al gas, come ricostruire un Medio Oriente all’anno zero

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IL FUTURO DELLA SPONDA SUD

Dai datteri al gas, come ricostruire un Medio Oriente all’anno zero

Membri del Programma Onu per lo sviluppo al lavoro nel mercato di Homs, gravemente danneggiato (Afp)
Membri del Programma Onu per lo sviluppo al lavoro nel mercato di Homs, gravemente danneggiato (Afp)

I pomodori e il gas dell'Algeria, il petrolio dei curdi dell'Iraq, le ambizioni delle monarchie del Golfo e quelle dell'Iran: sono mille i volti dell'economia mediorientale e della sponda Sud che incrociano i destini della geopolitica. Con una domanda su tutte: come ricostruire il mondo musulmano e la Siria dopo l'Isis, con quali risorse umane, oltre che economiche, e con quali frontiere? E quali saranno i punti caldi delle guerre a frammentazione in corso in una regione vitale per la nostra sicurezza, le risorse energetiche, i migranti?

La Siria offre un'istantanea disperante: 4 milioni e mezzo di rifugiati all'estero e più di 7 milioni di sfollati interni (su un totale di 22 milioni), un siriano su due non ha più la sua casa. La base economica è stata distrutta, la produzione di petrolio -400mila barili al giorno prima della guerra - è crollata, la disoccupazione è oltre il 50% e l'80% dei siriani sono in preda alla povertà. La distruzione è impressionante: «Una devastazione paragonabile a quella di certe nazioni dopo la seconda guerra mondiale», scrive Jihad Yazigi, direttore di Syria Report. Tanto profonda da richiedere investimenti stellari: 200 miliardi di dollari, una cifra tre volte superiore al Pil prima della guerra civile.
Ma da ricostruire non ci sono solo palazzi e infrastrutture: ci sono da restaurare rapporti sociali fatti a pezzi dai settarismi esplosi con la guerra civile. C'è da salvare soprattutto un'intera generazione di giovani siriani. Più di 2 milioni di bambini ha dovuto interrompere gli studi, almeno mezzo milione è a rischio. Una scuola su quattro è stata distrutta e oltre 50mila insegnanti hanno perso il lavoro. Su questi bambini si combatte la battaglia per il futuro: chi avrà la meglio tra i piani di Erdogan, quelli di Assad e dell'Iran e i soldi delle monarchie del Golfo?

L’Algeria dei gasdotti... e dei pomodori
Viaggiando nel mondo arabo non mancano anche sorprese positive, una di queste sono i pomodori algerini, prodotto di un Paese noto per i gasdotti con l'Italia e attraversato dall'incertezza della successione al presidente Bouteflika. L'Algeria, percorsa negli anni'90 da una guerra civile con 200mila morti nel conflitto tra i generali e i radicali islamici, ha scoperto l'antico sogno del deserto fiorito, dalle colture agricole ai piani per decongestionare le coste e far sorgere intere città nel Sahara. A 500 chilometri da Algeri, in direzione il Grande Sud sahariano, dove d'inverno le notti sono glaciali e d'estate la temperatura supera di 50 gradi, compaiono a perdita d'occhio migliaia di serre a tunnel, lunghi corridoi di plastica a forma di mezza botte dove in un microclima umido e tiepido sono allineate file di pomodori perfettamente rotondi. Sono irrigati con l'acqua fossile del Sahara, una riserva stimata in 60mila miliardi metri cubo di acqua. Queste serre ospitano dopo il ciclo invernale del pomodoro, quello del melone e dell'anguria. Gli agricoltori più ricchi reinvestono in palme da dattero, la famosa qualità “deglet nour”, dattero di luce, che ha un prezzo più stabile dei pomodori. L'Algeria ha prodotto nel 2014 un milione di tonnellate di pomodori, il Marocco 1,3, la Spagna 3,6, l'Italia, con oltre 5milioni, è sempre la regina europea.
Il sistema si regge sul lavoro di migliaia di operai agricoli a 2,10 euro l'ora con una paga giornaliera in media di 17 euro. Si trivellano a più non posso migliaia di metri cubi d'acqua, a 300 metri di profondità, e si fa grande ricorso ai pesticidi: pomodori che non possono essere esportati in Europa perché non rispettano le norme sanitarie. Eppure a Biskra, dove c'è anche una stazione di pompaggio del gas, vero tesoro algerino, è nata un'industria della trivellazione, sono sorte società agroalimentari, altre che fabbricano cavi e tubi e si sono insediati 26 nuovi hotel.

Ma cosa accadrà a questo mini-boom algerino, al miraggio nel deserto, dopo Bouteflika, patriarca morente di un'Algeria strategica per gli equilibri in Libia e in tutta la fascia subsahariana? È la risposta che vorrebbero avere i suoi vicini come la Tunisia e la Libia. Per la Tunisia il difficile contesto economico dopo la caduta di Ben Alì ha accresciuto i problemi strutturali, dalla disoccupazione, all'inflazione, alla mancanza di riforme economiche. Le fasce più disagiate e più vulnerabili sono state contagiate dal proselitismo dell'Isis. La Tunisia ha fornito 6-7mila foreign fighters tra Siria, Iraq e Libia. È evidente che la ripresa della Libia sarà decisiva: per ristabilire la sicurezza e ridare un posto di lavoro a un milione e passa di tunisini che emigravano nella terra del petrolio. Il ritorno dell'oro nero libico sui mercati è indispensabile per la sopravvivenza di buona parte del Maghreb.

Kurdistan iracheno fuori dall’isolamento
Il ritorno della questione curda in Medio Oriente, che in questi giorni contrappone gli Usa a Erdogan, è in realtà il prodotto non solo della caduta di Saddam Hussein nel 2003 ma anche di un boom economico che negli anni scorsi faceva apparire Erbil come una nuova Dubai. Il Kurdistan iracheno in questi anni è uscito dall'isolamento. Anche se il sogno di avere uno sbocco curdo sul Mediterraneo è probabilmente destinato a infrangersi con l'offensiva turca contro i curdi siriani. Erbil e Suleimaniyah oggi sono collegate da oltre 200 chilometri di strada asfaltata. Per decenni c'era una sola via, che percorsi nel 1980, per andare dall'Iraq all'Iran: era l'Hamilton Road costruita negli anni Trenta da un ingegnere neozelandese durante la colonizzazione britannica. Da allora non era stato fatto nessun collegamento Est-Ovest: non era opportuno favorire l'unità del Kurdistan iracheno né la sua autonomia. Con la creazione della zona autonoma curda (Krg) di Massud Barzani è iniziato lo sviluppo sostenuto dal petrolio e con la comparsa dell'Isis i peshmerga, dopo essersi liquefatti davanti al nemico, attestato nel 2014 a 40 minuti d'auto da Erbil, hanno poi approfittato delle sconfitte dei jihadisti per occupare Kirkuk, centro petrolifero rivendicato dai curdi che qui sono in realtà non più del 50% della popolazione.
Barzani tratta con la Turchia che acquista il suo petrolio e lo gira anche a Israele ma certamente Ankara non vorrebbe vedere l'indipendenza del Kurdistan iracheno e tanto meno del Rojava, il Kurdistan siriano. Gli Stati Uniti restano in una posizione ambigua, usano i curdi contro l'Isis ma non vogliono compromettere le relazioni con un membro della Nato come la Turchia. L'Iran, alle prese con i suoi curdi, è ostile alla prospettiva irredentista, così come la Russia, che ha forti legami con Teheran, il governo centrale di Baghdad ed è tornata in buone relazioni con la Turchia.
I curdi ci mettono del loro: a Suleiymania dicono che con le risorse energetiche potrebbero nutrire 50 milioni di persone ma i proventi sono stati dilapidati dal clan Barzani e 1,5 milioni di dipendenti pubblici, su una popolazione totale di 7 milioni, sono pagati a singhiozzo. Le conquiste curde, sia in Iraq che in Siria, rischiano di non trovare il necessario sostegno oltre che un'unità di intenti politici: l'economia sarà decisiva quanto la geopolitica nel destino dei curdi.
Ma veniamo ai più ricchi di tutti, i regnanti delle monarchie del Golfo, dove gli americani hanno 7 basi militari e la flotta a Manama, segnale evidente di qual è il vero interesse strategico Usa nella regione.

La guerra per procura dell’Iran
Possiedono il 60% delle riserve mondiali di petrolio e il 40% di quelle di gas. Dallo stretto di Hormuz, conteso agli iraniani, passa a un terzo dei rifornimenti occidentali mentre dall'altra parte, a Bab el Mandeb, tra Mar Rosso e Corno d'Africa, transita il 40% del commercio marittimo mondiale. Dopo l'accordo sul nucleare con Teheran del luglio 2015 la guerra fredda tra Teheran e Riad, già in corso in Siria, è diventato un conflitto bollente in Yemen dove l'Iran sostiene i ribelli sciiti Houthi e l'Arabia Saudita un fronte sunnita di 12 Paesi. Riad ha acquistato dall'amministrazione Obama 100 miliardi di dollari di armi in otto anni ma non riesce a vincere questo conflitto neppure ricorrendo a mercenari latinoamericani e asiatici.

Gli iraniani sanno che potrebbero vincere anche questa guerra per procura, come sono riusciti a mantenere in sella Assad con l'aiuto decisivo di Putin. Ma agli ayatollah conviene davvero la rovina dei Saud? A Teheran pensano che chi verrà dopo di loro potrebbe essere pure peggio. Gli iraniani sono gli unici con una visione strategica di lungo termine che prevede all'orizzonte un mondo musulmano con centri religiosi concorrenti ma nessuno dominante: Kerbala e Najaf come Mecca e Medina. Non a caso gli ayatollah hanno invitato il Papa ad andare a pregare a Qom, il Vaticano dello sciismo.

L’apartheid delle monarchie del Golfo
Per le monarchie del Golfo, sostenute da americani ed europei, i loro grandi partner finanziari e strategici assetati di investimenti, ora si pongono due problemi decisivi: la crisi delle quotazioni del petrolio e quella di un sistema fondato su un apartheid che divide i cittadini arabi dai non cittadini, in grande maggioranza asiatici. Gli stranieri sono l'80% degli abitanti in Qatar e negli Emirati, il 33% dei lavoratori in Arabia Saudita, il 69% in Kuwait, il 74% in Barhein. Nel Golfo non arrivano i profughi siriani, non graditi, ma migranti dall'Oriente che tengono in piedi l'economia.
La storia dimostra che questi tipi di struttura sociale non hanno un avvenire e questa non è una buona notizia per tutti gli altri stati della regione, in crisi o in disgregazione. E forse neppure per noi. Ma c'è anche una sfida formidabile: il mondo arabo più ricco si dovrà aprire per sopravvivere a se stesso. Finora le monarchie del Golfo hanno puntato sulla “diplomazia religiosa” per attenuare le disuguaglianze e tenere lontani i guai, esportando la versione più retrograda e conservatrice dell'Islam, jihadisti compresi. Ma adesso i guai stanno per entrare in casa loro.

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