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Trump, tassi e inflazione: nuovi scenari

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I MERCATI DOPO IL VOTO usa

Trump, tassi e inflazione: nuovi scenari

Si torna a parlare di inflazione. Il rialzo dei rendimenti - legato all’esito delle elezioni americane - ha fatto pensare a un aumento delle aspettative sui prezzi. Non è detto che sia così: un rendimento più alto può anche segnalare un aumento dei rischi, invece dell’attesa di una reflazione.

Le politiche economiche promesse da Donald Trump - al suo nome è legata questa nuova fase - non permettono di capire cosa stiano cercando gli investitori, se protezione da prezzi in rialzo, anche solo nel medio termine, o da un bilancio Usa decisamente meno solido e meno sostenibile.

C’è quindi anche la possibilità che il rialzo dei rendimenti non preannunci un rialzo dei prezzi e questo sarebbe sicuramente lo scenario meno augurabile: i conti pubblici Usa sono vulnerabili a molti shock diversi, ma il più pericoloso, quello che porterebbe il debito pubblico fino a sfiorare il 125% del Pil nel 2025 - è una stima del Fondo monetario internazionale - riguarda i tassi reali.

Perché si parla, all’improvviso, di un ritorno dell’inflazione?

Gli investitori, subito dopo l’elezione di Donald Trump, hanno modificato le proprie strategie di investimento dando l’idea di temere, a causa delle politiche economiche del nuovo presidente, una fiammata dei prezzi. A colpire sono stati, in particolare, gli acquisti di Tips, i titoli di Stato americani che proteggono dall’inflazione: nelle ultime otto settimane, secondo i calcoli della BofA Merril Lynch, gli acquisti hanno segnato un record, superando per la prima volta - nella media mobile a otto settimane - i cinque miliardi di dollari.

Non si tratta però solo di questo: sono stati premiate le azioni rispetto ai bond, si è ridotto l’impegno nei paesi emergenti, è aumentato quello verso le materie prime industriali. Sono tutti segnali che lasciano pensare a nuove, più alte, aspettative di inflazione. Il rialzo dei rendimenti, e degli spread, europei sembra invece essere un puro fenomeno di contagio, quindi più pericoloso.

Sono davvero inflazionistiche le politiche di Donald Trump?

Il nodo cruciale è esattamente questo. La “Trump economy” - gli analisti la chiamano ormai così - sembra essere in grado, almeno in astratto, di aumentare le pressioni sui prezzi, anche se in questa fase, dopo anni di politiche monetarie ultraespansive e di quantitative easing, le determinanti dell’inflazione sono meno chiare.

Trump ha subito promesso un ampio programma di spese pubbliche per risanare le infrastrutture, in cattivo stato, e per dar nuova occupazione ai lavoratori meno fortunati. Sicurezza interna e immigrazione richiederanno maggiori risorse. Sia il presidente che i repubblicani candidati al Congresso hanno inoltre sostenuto la necessità di nuovi tagli fiscali, mostrando più attenzione agli effetti sulla crescita - peraltro più desiderati che certi - che alla tenuta dei conti pubblici. Deficit più alti e un mercato del lavoro ancora più “tirato” potrebbero effettivamente avere un effetto inflazionistico, ma prima di vedere un aumento dei prezzi si potrebbe assistere anche a un’accelerazione della stretta della Fed, proprio per contrastare la minore attenzione ai conti pubblici. È vero che l’attuale politica monetaria sembra disposta ad accettare anche un po’ di inflazione “di troppo”, ma gli investitori si attendono che Trump nomini due nuovi componenti “falchi” nel board della Fed, tra i quali il potenziale successore di Janet Yellen nel 2018.

Tra le mosse “protezionistiche” di Trump non è irragionevole immaginare innanzitutto una svalutazione del dollaro, che pure avrebbe un effetto inflazionistico; ma è già attesa, come risposta dei partner e soprattutto della Cina, una contro-svalutazione, per cui l’effetto complessivo non è facilmente prevedibile.

Resta, sullo sfondo, il grande problema: l’inflazione lenta è legata a una carenza di domanda o anche a fattori più strutturali, per esempio un eccesso di offerta? In quest’ultimo caso, l’effetto inflattivo delle politiche espansive potrebbe essere inferiore alle attese e le tensioni sui rendimenti potrebbero risultare controproducenti.

A cosa è legato l’aumento dei rendimenti europei?

L’elezione di Donald Trump è stata accolta anche in Europa con un aumento dei rendimenti e anche degli spread. In questo caso non si tratta di un aumento delle aspettative di inflazione, quanto di un cambiamento dei premi per il rischio. Le nuove strategie degli investitori hanno previsto un disimpegno dall’Europa a favore degli Stati Uniti e, più in generale, una maggiore ricerca di “qualità” negli investimenti finanziari.

Una svalutazione, o anche un semplice deprezzamento, del dollaro a scopi “protezionistici” si scaricherebbe innanzitutto sull’euro, che inizierebbe ad apprezzarsi, e l’Unione monetaria inizierebbe a importare “deflazione” dagli Usa (per ora, invece, il cambio effettivo, verso le valute dei maggiori partner, è abbastanza stabile). E se anche un orientamento fiscale più espansivo negli Usa si trasformasse in una maggiore domanda globale, la nuova politica economica del presidente eletto non permetterebbe agli Usa di tornare a essere il “consumatore” di tutti come nel passato. Eurolandia appare resiliente agli shock esterni, e non deve troppo preoccuparsi degli effetti negativi delle nuove politiche, ma non può neanche aspettarsi troppi benefici dal nuovo corso. Oltretutto, occorre immaginare che la Casa Bianca riesca a ben equilibrare tutti gli interventi previsti per ottenere effetti davvero positivi, anche solo per gli Usa. È una scommessa davvero ardua...

Queste considerazioni lasciano pensare che, se il trend dei mercati dovesse proseguire, la Bce non potrebbe che proseguire e forse anche accentuare la sua politica ultraespansiva con un occhio particolare proprio all’Italia, dove i tassi reali sono molto aumentati in seguito alla reazione dei mercati.

Pressioni sui prezzi, del resto, non se ne vedono. Se l’indice di inflazione aumenta è solo a causa di una minore flessione dei prezzi sull’energia, che un anno fa erano già molto bassi. Il rischio di avere tassi reali più alti - ossia tassi nominali più alti con un’inflazione ferma o molto lenta - è paradossalmente più elevato in Eurolandia che negli Usa.

Cosa accadrebbe se l’inflazione salisse di nuovo?

Un rialzo dell’inflazione comporterebbe il ritorno dell’economia - solo quella americana, più probabilmente - a una situazione più simile, ma non identica, a quella del passato. L’aumento dei prezzi - se tenuto sotto controllo - faciliterebbe il riequilibrio dei prezzi relativi e il rimborso dei debiti (che sono espressi a valore nominale). I tassi salirebbero, a vantaggio dei risparmiatori, mentre si ridurrebbero i temuti, ma finora lontani, rischi di “bolle” finanziarie. Si ridurrebbero però anche i salari reali, con effetti sui consumi: l’inflazione è sempre una tassa, che pesa soprattutto sui meno abbienti.

Se anche Eurolandia riuscisse a godere di un aumento dei prezzi, potrebbe diventare più semplice, qui, il riequilibrio delle economie dell’Unione monetaria, dove occorre che il costo della vita in Germania - per esempio - salga più rapidamente che in Spagna, o in Italia (o anche in Francia con cui ha il maggior surplus commerciale).

Più in generale, l’inflazione avvantaggia i debitori, e quindi principalmente le aziende e gli Stati, mentre penalizza i creditori, e quindi risparmiatori (di nuovo!) e lavoratori.

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