Se Brexit fosse un giallo non potrebbe finire con il rassicurante finale britannico «è stato il maggiordomo» perché stavolta hanno già ucciso il cameriere. La vittima ha meno di 35 anni, spesso è italiana, in questi anni di profonda crisi di lavoro in Italia atterrava a Londra per imparare la lingua, fare qualsiasi cosa purché retribuita, in molti casi dare un senso a una laurea. In moltissimi casi iniziava da un vassoio, non prima di passare dalla cucina.
Il Regno Unito è stato per anni - il picco nel 2014 - rifugio di quella disoccupazione giovanile che l’Istat vede fissa al 40 per cento. Sono bastati otto mesi di annunci per far crollare gli arrivi nonostante la storia debba ancora essere scritta, ufficialmente inizia il 29 marzo e dura due anni. Dal 23 giugno 2016 le cose sono già cambiate, gli emigranti italiani non vedono più l’isola come il Regno delle promesse mantenute, certo è sempre un po’ colpa dei soliti media italici che gridano al lupo, affermano gli italo-londinesi interpellati, ma ci sono dettagli che non sono solo percezione.
«Stiamo monitoriamo gli atteggiamenti discriminatori, in questi mesi ci sono state segnalate delle anomalie» dice Brando Benifei, europarlamentare del gruppo socialista, membro delle commissioni occupazione e affari sociali ed esteri, copresidente dell’Intergruppo giovani del Parlamento Ue, istituzione chiamata a votare l’accordo definitivo frutto dei prossimi due anni di negoziati. «L’84 per cento dei residenti europei nel Regno Unito ha diritto a chiedere la permanent residence che presuppone cinque anni di lavoro nel Regno. Dalla vittoria del referendum abbiamo registrato casi di rallentamenti burocratici, ritardi nell’esame delle domande, colloqui rimandati, questionari lunghissimi, un formulario complicato reso ancora più difficile, e parliamo già di 85 pagine. Questo sarà un tema negoziale - spiega Bonifei - e non stiamo parlando di diritto comunitario ma di diritto inglese».
Ironico che un Paese che ha votato contro l’invasione di stranieri, se ne dovrà tenere tanti: più dell’80 per cento di cittadini Ue ha requisiti per rimanere a vita (la permanent residence corrisponde alla green card americana). Non se ne andrà quasi nessuno a meno che non voglia. Ancora più ironico che un Regno che ha mantenuto un impero anche grazie a una regole certe e snelle, faccia esperimenti di borbonica burocrazia. Non un brillante plot sin qui.
“C’è una corsa alla permanent residence, è normale che gli uffici britannici siano un po’ ingolfati”
Giuseppe Gaglione, avvocato italiano e solicitor dal 2000 a Londra
«C’è una corsa alla permanent residence, è normale che gli uffici britannici siano un po’ ingolfati e comunque mantengono un alto livello di efficienza, in 3-4 settimane si ottiene quel che si chiede» dice Giuseppe Gaglione, avvocato italiano e solicitor inglese dal 2000 a Londra, studio familiare Sliglaw, ci lavorano tre fratelli, specializzazione in immigration, assiste britannici che vivono in Italia e soprattutto italiani nel Regno.
Quello che non è normale è che l’apparato britannico introduca piccoli cavilli tipici di quella Ue da cui vuol fuggire, tipici di una burocrazia, non andiamo troppo lontano, italiana. «Adesso chi chiede la permanent residence card deve fornire più prove possibili rispetto al passato» a sostegno del già corposo questionario di 85 pagine, racconta l’avvocato Gaglione che parla per esperienza personale perché da poco ha inoltrato la richiesta. «Rispetto all’era pre Brexit si chiedono statement bancari degli ultimi cinque anni, ma non basta più la versione online, adesso bisogna stampare tutto, andare in banca, farsi vistare centinaia di pagine. Si chiedono tutte le bollette (utility bills, dalla luce al telefono, non basta la Council tax bill che da sola sarebbe prova più che sufficiente). Al contrario che in passato - prosegue Gaglione - si devono comunicare per iscritto tutti i periodi di assenza dal Regno, prima bastava scaricare i movimenti con una tessera frequent flyer, adesso bisogna fare la lista con un file word o excel con tutte le date».
In sintesi «la richiesta per la permanent residence deve essere fatta benissimo, sconsiglio di improvvisare, e formalmente i diritti europei non vengono lesi», racconta Gaglione.
Mesi a distinguere tra hard e soft, intanto il Brexit di Theresa May lavorava di fino. A Bruxelles lo sanno «registriamo timori – dice Benifei – non a caso l’Europarlamento pensa a una task force che monitori i trattamenti discriminatori contro cittadini europei nel Regno Unito. L’Italia è particolarmente impegnata, siamo il primo consolato europeo per volume di attività nella Ue con 600 mila nostri connazionali che vivono nel Regno». La segreteria del consolato informa che non sa quando potrà rispondere per l’alto numero di richieste.
Migliaia di italiani a Londra, la seconda nazionalità dopo i polacchi, ultimamente sempre meno, l’avvocato Gaglione ha assistito al crollo: «Collaboro col progetto Primo Approdo del consolato nato nel gennaio 2014 quando gli arrivi dall’Italia hanno raggiunto il picco. Il progetto serviva ai nuovi arrivati in cerca di informazioni su casa, lavoro, curriculum, un manuale di sopravvivenza. Prima si incontravano cento ragazzi al mese, dal Brexit siamo passati a 7/8. Adesso arrivano meno camerieri e meno laureati», quei pochi che arrivano si sentono chiedere un inesistente permesso di soggiorno. Una richiesta illecita perché tutti siamo ancora europei, forse l’atteggiamento sta cambiando. «Un ragazzo su dieci informa dell’accaduto il consolato che contatta l'azienda la quale a quel punto si scusa o dice “il ragazzo non ha capito”». Gaglione vede invece più investitori italiani. «Stanno aumentando quelli che vogliono fare un investimento immobiliare o societario, mi riferisco a chi vuole comprare un appartamento o rilevare un’azienda della ristorazione puntando sul paradiso fiscale che sarà».
In futuro chi arriverà a Londra inseguirà dunque una precisa tassa e non più una generica opportunità di vita? Da avvocato, Gaglione ascolta anche le preoccupazioni delle famiglie italiane che vogliono mandare il diciottenne a studiare nel Regno Unito, «se inizia adesso un percorso di studi a quale titolo poi rimarrà nel Regno?, si chiedono. I genitori che possono comprare casa e intestarla al figlio frenano, non sanno come le cose potranno cambiare ma nessuno in questo momento può rispondere, bisogna aspettare i negoziati». Da Berlino anche l’europarlamentare Benifei può dire poco di più sul punto, «vogliamo che il diritto allo studio diventi tema negoziale», ma per ora non si può andare oltre la promessa di uno «scambio accademico» fra l’Ue e il Paese che va.
«Sappiamo che i giovani italiani temono di rimanere incastrati nel percorso di studio, che col tempo ci possa essere un aggravio di costi o difficoltà a rimanere». Come iniziare una partita con certe regole e finirla con altre, è per questo motivo che a Bruxelles insistono sulla reciprocità: «non sono pochi i pensionati britannici che si trasferiscono in Spagna e usufruiscono di tutti i servizi sociali di un Paese Ue», ricorda Benifei.
Mentre i pensionati britannici si staranno chiedendo se potranno godere alle stesse condizioni del sole invernale delle Canarie, al centro Pallotti, vicino alla Chiesa di St Peter, Little Italy londinese ormai scomparsa, hanno visto improvvisamente la scena mutare. Francesco Di Rosario, ingegnere geotecnico da nove anni a Londra, operation manager per una società di ingegneria, ora studente di un MBA per executives alla Warwich Business School, è uno dei fondatori di Benvenuto a Bordo, organizzazione non profit nata nel 2014 in pieno boom di italiani a Londra con il patrocinio del consolato. Il suo volontariato è aiutare gli italiani appena arrivati, li accoglie nel centro Pallotti, varie sale, attività per bambini, pensionati, ragazzi che frequentano la parrocchia.
In un corto circuito passato/presente il centro ricreativo attorno a cui si ritrovava la comunità italiana negli anni Sessanta del Novecento è diventato negli ultimi anni di profonda crisi di lavoro, il punto di riferimento degli italiani sbarcati nella metropoli, giovani laureati o cinquantenni in cerca di qualsiasi sistemazione. Di Rosario stima per difetto 100mila arrivi dall’Italia dal 2013 al 2016. Dal 2008 ha visto cambiare il popolo di italiani a Londra, ne ha misurato la disperazione. Prima della grande crisi 2007 si trattava soprattutto di ragazzi che volevano fare un’esperienza di vita/lavoro. Poi iniziano ad arrivare sempre più «laureati e famiglie, arrivavano persone senza risparmi né inglese» tanto che abbiamo iniziato a consigliare al capofamiglia di venire prima da solo e di spostare tutti solo se le cose fossero andate bene». Dopo Brexit Di Rosario ha visto il calo di arrivi: «Prima di Brexit ai nostri incontri di presentazione – informazioni, orientamento, cv – si presentavano cento persone al mese, adesso non più di 30-40, sono diminuite le famiglie, tengono i laureati under 35. Il risultato per ora è che nei caffè e nelle pizzerie inizia a mancare personale. È un periodo d’attesa, parecchi guardano alla Scozia dove a parità di paga il costo della vita è più basso».
Intanto fuori Londra, accenna Di Rosario, «si registrano diversi casi di razzismo, nelle zone operaie ed ex industriali, gli elettori di Brexit criticano e discriminano gli europei». Razzismo a cui non crede Phil Baglini, giornalista di LondonOneRadio, radio in streaming, in italiano e inglese, impegnata a smontare le fake news, leggende metropolitane che fioriscono nell’incertezza di una situazione completamente nuova e nel caos incontrollabile dei social, «è falso che se non hai la permament residence ti buttano fuori, è falso che se chiedi la permant residence ti ritirano il passaporto per 7 mesi e non puoi viaggiare, basta andare in un civic centre e chiedere una fotocopia autenticata, è falso che le univeristà non accetteranno più italiani ed europei», dice Baglini che tende più a vedere le cose dal punto di vista inglese. È vero però, ammette, «che le tre ragazze che lavorano con me e studiano giornalismo alla City e alla London Metropolitan hanno chiesto in ateneo se qualcosa cambierà per loro e gli è stato risposto che pagheranno più tasse». È vero anche che «c’è tanta paura, troppa confusione» gli italiani che lavorano nell’NHS (sanità) e nella finanza «sono preoccupati» anche se, assicura, «nessuna banca chiuderà, al massimo apriranno una succursale a Bruxelles, in Francia, forse a Milano».
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