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L’Iran sceglie tra Rohani e Raisi: test sull’apertura al mondo

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OGGI LE PRESIDENZIALI

L’Iran sceglie tra Rohani e Raisi: test sull’apertura al mondo

Il candidato conservatore Ebrahim Raisi (Afp)
Il candidato conservatore Ebrahim Raisi (Afp)

TEHERAN - Le elezioni presidenziali in Iran sono le più strategiche del Medio Oriente e della «mezzaluna sciita». Scegliendo tra due ayatollah, il presidente uscente Hassan Rohani e il conservatore Ebrahim Raisi, un seyed con il turbante nero simbolo di discendenti dalla famiglia del Profeta, gli iraniani decideranno se continuare o meno l’apertura al mondo esterno simboleggiata dall’accordo sul nucleare del 2015. Sono le prime dalla firma di quell’intesa voluta da Obama e definita da Trump «orribile» ma riconfermata in queste ore dalla Casa Bianca. Queste sono anche le prime elezioni dalla rivoluzione di Khomeini del 1979 senza la presenza determinante di Hashemi Rafsanjani, il burattinaio della repubblica islamica deceduto d’infarto nel gennaio scorso mentre faceva il bagno in piscina.

Sono anche le uniche elezioni del Medio Oriente, Israele escluso, dove il risultato non è del tutto deciso in anticipo. Intendiamoci, quella iraniana non è una democrazia, come spiega il politologo Sadeq Zibaqalam: «Gli elettori vanno alle urne per scegliere “il minore dei mali”, non decidono davvero chi sono i loro rappresentanti, sono piuttosto gli arbitri di una lotta feroce all’interno dell’élite rivoluzionaria». Ma questa oligarchia travestita da democrazia è molto attenta ai segnali che provengono dalla società, soprattutto dopo la rivolta dell’Onda Verde del 2009 e le primavere arabe del 2011.

L’affluenza alle urne sarà fondamentale, spiega un diplomatico iraniano, per assegnare a Rohani un altro mandato: se perdesse sarebbe la prima volta che un presidente non ottiene la riconferma, come prima di lui Rafsanjani, il riformista Khatami e Ahmadinejad. Ci sono 56 milioni di aventi diritto al voto distribuiti per un terzo nelle grandi città, un terzo in centri medio-piccoli e il resto nelle zone rurali. Se prevalgono le grandi città Rohani vince, altrimenti potrebbe farcela Raisi, esponente del fronte ultra-conservatore, appoggiato dalla Guida Suprema Alì Khamenei e custode della potente Fondazione Reza di Mashad. A conferma di questa lettura ci sono i risultati delle politiche del 2016 quando nella capitale prevalse la lista di pragmatici e riformisti, senza lasciare un seggio ai falchi. «Se la borghesia di Teheran si tura il naso e vince l’istintiva avversione ai mullah, Rohani vince, altrimenti le cose si complicano».

La differenza basilare rispetto al 2013, quando fu eletto Rohani, è che il fronte ultra-conservatore - un nocciolo duro di religiosi e pasdaran, l’ala militare del regime - si è compattato dietro a un candidato. Tra l’altro a Teheran si vota anche per le municipali e potrebbe perdere il posto il conservatore Qalibaf che si è ritirato dalle presidenziali per lasciare i voti a Raisi. È previsto un ballottaggio nel caso in cui nessun candidato superasse il 50% dei voti, ma questo potrebbe non accadere visto che si tratta ormai di una corsa a due.

In gioco non c’è soltanto la presidenza. Ebrahim Raisi è stato indicato come un possibile successore della Guida Suprema Ali Khamenei, 77 anni, malato ma deciso a garantire continuità alle istituzioni della Repubblica islamica e che non vorrebbe lasciare la massima istanza del Paese in mano a un governo con un presidente ostile ai falchi del regime. La Guida o Rahbar esercita la suprema autorità in attesa della messianica riapparizione del Dodicesimo Imam: il suo potere convive con quello degli organi eletti, il parlamento e il presidente, ma controlla il Consiglio dei guardiani, la magistratura e nomina i vertici delle forze armate, tutte istituzioni saldamente in mano agli ultraconservatori.

Ma soprattutto questa oligarchia religiosa e militare controlla attraverso le Bonyad, le fondazioni, i due terzi dell’economia. È qui, nel cuore del sistema, che il cambiamento è più temuto. Raisi è il capo della Bonyad Reza che oltre a gestire gli introiti derivanti dall’afflusso dei pellegrini al mausoleo di Mashad dell’Ottavo Imam - 17 milioni di persone l’anno - controlla un potente conglomerato industriale e agrario. Insomma, il mullah Raisi, ex procuratore generale, è un ricco ayatollah-manager che rimprovera a Rohani di non avere ottenuto abbastanza con l’accordo sul nucleare e di avere deluso le aspettative di poveri e disoccupati. Rohani gli ha replicato che lui era tra i giudici del comitato che nell’89 mandò a morte migliaia di oppositori. Gli ayatollah sono uomini di fede ma all’occorrenza tra loro si sbranano.

Trump guarderà oggi la resa dei conti elettorale dall’altra sponda del Golfo, a Riad, prima tappa del viaggio mediorientale che lo porta in Israele. Si è fatto precedere da sanzioni individuali a esponenti iraniani per gli esperimenti sui missili balistici. Vorrebbe costituire un’alleanza tra israeliani e sauditi in funzione anti-Isis e anti-Iran, rispolverando come copertura diplomatica il negoziato con i palestinesi. I sauditi lo accolgono con un regalo da 40 miliardi di dollari di investimenti nelle infrastrutture americane, 100 miliardi di negoziati sulle armi e il piano di privatizzare il 5% dell’Aramco (100 miliardi).

Progetti luccicanti ma l’irriducibile Iran non rinuncia con l’”asse della resistenza” a dire la sua: ha vinto con l’aiuto dei russi la guerra in Siria, ha una solida base nell’Iraq sciita e manovra gli Hezbollah in Libano. Non male per un Paese da 38 anni sotto sanzioni, attaccato nell’80 da Saddam e da una coalizione di interessi arabi e occidentali, che però ha saputo sfruttare gli errori madornali degli americani e del fronte sunnita in Iraq, Siria, Afghanistan, Libia, Yemen.

È a queste incongrue mosse e alleanze che dobbiamo il terrorismo jihadista e milioni di profughi, certo non agli astuti ayatollah di Teheran.

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