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Perché Kim Jong-un «ha già battuto Trump»

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IL DIBATTITO NEGLI USA

Perché Kim Jong-un «ha già battuto Trump»

Un viaggiatore guarda lo schermo di una tv alla stazione di  Seoul
Un viaggiatore guarda lo schermo di una tv alla stazione di Seoul

L’America non è mai stata così irrilevante, il dittatore della Nord Corea ha già vinto perché il presidente Trump fa minacce generiche «fuoco e furia come non avete mai visto» mentre il regime più isolato del mondo indica cosa vuole colpire, come e quando (l’isola di Guam, con un missile, fra pochi giorni). Non importa che questo poi non accada, un’escalation militare è improbabile oltre che non auspicabile secondo il più cauto segretario di Stato Rex Tillerson che ieri ha detto agli americani di dormire sonni tranquilli.

Quello che gli osservatori di politica estera americana notano nelle ultime ore è che la crisi di mezza estate fra gli Stati Uniti e la Nord Corea ha fatto già una vittima, la leadership dell’unica superpotenza sopravvissuta alla Guerra Fredda. Giudizi che certo possono essere ribaltati fra poche ore vista la imprevedibilità del leader nordcoreano, l’opacità cinese, il grado di improvvisazione delle uscite di Trump ammmesso dal suo stesso entourage.

Il danno di immagine intanto è evidente. Trump non sarà Truman che non usò parole a caso durante la seconda guerra mondiale - quando lo fece sganciò Little Boye Fat Man, le due bombe atomiche a Hiroshima e Nagasaki - e rischia di ritrovarsi Obama, che nell’estate 2013 intimò al dittatore siriano Assad di non oltrepassare la linea rossa delle atrocità sui civili, pena raid che mai arrivarono.

Non è facile per un Paese come gli Stati Uniti ammettere la propria debolezza ma questo ora accade, stavolta i giudizi di riviste come Foreign Policy o The Atlantic e per esteso di una certa élite diplomatica sembrano andare oltre la diffusa ostilità dei media nei confronti di The Donald. È verosimile che la preoccupazione di non essere percepiti con la stessa autorevolezza di sempre sia superiore all’avversione per un personaggio da reality show, come i suoi indefessi critici non smettono di definirlo.

Lo stesso presidente del Council of Foreign Relations Richard Haas che su Twitter rintuzza il presidente proprio quando non ne può fare a meno, dice al sito Axios che minacciare «fuoco e furia» è «controproducente e non fa che aumentare i dubbi sia all’estero che in casa sulla capacità del presidente di gestire la situazione quando tutta l’attenzione e le critiche dovrebbero essere rivolte alla Nord Corea». Trump rischia insomma di passare dalla ragione al passo falso se non al torto.

Il Wall Street Journal non è affatto d’accordo con questi argomenti, anzi difende il presidente e il suo «colorito linguaggio», ma non si nasconde, affronta quella che è una delle questioni in queste ore: la credibilità degli Stati Uniti e del suo governo.

“Esiste un’opzione militare per distruggere il programma della Nord Corea e la Nord Corea stessa”

Lindsey Graham, senatore repubblicano, dopo un colloquio con Trump  

Il quotidiano finanziario difende l’amministrazione Trump anche se ammette «la solita mancanza di tatto diplomatico del presidente»: difesa che zoppica quando ricorda che Obama fece peggio in Siria quattro anni fa, inquieta quando riporta le parole della settimana scorsa del senatore repubblicano Lindsey Graham con cui Trump si è confidato («esiste un’opzione militare per distruggere il programma della Nord Corea e la Nord Corea stessa»), convince quando sostiene che il più importante spettatore di questo teatro di tensione è la Cina. Sono i signori di Pechino che devono convincersi che il gioco pericoloso di Kim è anche reale e devono quindi agire di conseguenza, tagliando i rifornimenti di petrolio, per esempio.

Curiosamente si può trovare online anche un editoriale che non dimentica il patriottismo anche se scivola nel paternalismo. Lo si legge sul New York Times, il giornale con cui il presidente vive un quotidiano rapporto se non di amore-odio, certo di dipendenza reciproca. Mai stanca di ripetergli ogni giorno le stesse cose, la “signora in grigio” è l’unica che si rivolge a Trump nella speranza di cambiarne ancora il carattere e spiegare come deve comportarsi, gli ricorda che non è più un imprenditore di New York che deve concludere un affare ma un commander in chief, e con una familiarità che altri non hanno auspica una leadership «disciplinata e prudente, adesso».


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