La Bce è preoccupata. Non soltanto e semplicemente dell’euro, per la sua volatilità «che crea incertezza», ma anche della causa di questi movimenti disordinati, i messaggi di «qualcun altro», una formula dietro la quale è immediato vedere - il presidente Mario Draghi non l’ha citata, ma il riferimento era chiarissimo - l’Amministrazione Usa.
Una Bce molto «colomba»
La riunione di gennaio ha mostrato dunque una Bce molto “colomba” in termini di politica monetaria. L’euro è un fattore di preoccupazione, perché il rialzo può frenare il ritorno dell’inflazione all’obiettivo del 2%, anche se - nel linguaggio tipico delle banche centrali - Draghi non ha fatto riferimento al livello ma alla volatilità della valuta, ma anche di quella dei rendimenti di mercato, che si sono bruscamente alzati.
Crescita, ma non solo
Questa volatilità in è parte legata al rafforzamento della crescita - ha spiegato il presidente - in parte a una aumentata reattività dei mercati alla comunicazione della Bce, ma soprattutto - Draghi lo ha ripetuto più volte - al fatto che altri attori economici non rispettano più l’impegno preso sui cambi a ottobre, in occasione del meeting del Fondo monetario internazionale.
Gli impegni mancati
L’impegno era di «astenersi dalle svalutazioni competitive» e di non usare il cambio «in modo competitivo». Al World Economic Forum di Davos, mercoledì, il segretario al Tesoro Steve Mnuchin ha invece dato il benvenuto alla debolezza del dollaro, argomentando che è un fattore positivo per le esportazioni Usa, mentre il segretario al Commercio Wilbur Ross ha detto che, nella guerra commerciale globale, «le truppe Usa stanno arrivando sulle barricate».
Tensioni nelle relazioni internazionali
Sono dichiarazioni che sono state evidentemente discusse nel consiglio della Bce. «Molti componenti hanno espresso preoccupazione», ha detto , e l’inquietudine riguarda «più in generale, lo stato delle relazioni internazionali». Non è una questione politica: il vero timore è che la debolezza del dollaro, guidata da quelle parole e più in generale dalla nuova strategia geoeconomica degli Usa, creino «un irrigidimento non voluto, e non giustificato, delle condizioni monetarie», ossia un rialzo dell’euro - malgrado le dichiarazioni di Draghi, è salito oltre quota 1,25 dollari - e un aumento dei rendimenti.
Non cambia la forward guidance
Non c’è stata dunque alcuna rivisitazione della forward guidance, quindi: non se ne è neanche discusso. L’interpretazione ufficiale delle indicazioni fornite dalle minute è diversa da quella colta dagli investitori. Il consiglio ha manifestato a dicembre - ha detto Draghi - la necessità di iniziare una discussione sul linguaggio della forward guidance, che «non è davvero iniziata», ha detto Draghi.
Il board ha infatti esaminato quanto è cambiato, nell’economia dell’Eurozona negli ultimi mesi e ha concluso che nulla è cambiato in modo tale da giustificare un nuovo linguaggio. Nulla a parte - evidentemente - il rialzo dell’euro e dei rendimenti che ora sono diventati più importanti, al punto da consigliare molta più prudenza nella normalizzazione.
Quando l’obiettivo sarà a portata di Eurolandia?
Draghi ha addirittura voluto precisare quando l’obiettivo di inflazione sarà davvero a portata: occorre che il percorso della dinamica dei prezzi vada nella direzione del 2% nel medio termine (non contano quindi i «touch and go», ha detto); occorre che il range delle previsioni - che è sempre ampio - sia sufficientemente stretto: «occorre fiducia nel grado di convergenza», ha detto; e deve essere «autosostenibile».
Frena la marcia verso la normalizzazione
Eurolandia - sembra dunque essere il messaggio finale della riunione Bce - è ben lontana dall’obiettivo, e ora la politica internazionale sembra averla allontanata ancora di più. La Bce dovrà forse restare colomba più a lungo di quanto si prevedesse solo un mese fa.
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