I super dazi minacciati su acciaio e alluminio, lo stop alla cessione della Borsa di Chicago a una cordata nella quale compaiono soci cinesi e l’allarme sulla sicurezza dei telefonini Huawei e Zte sono solo gli ultimi colpi sparati dagli Stati Uniti contro la Cina, in un crescendo che rischia di scivolare nella temuta guerra commerciale, dalla quale nessuno, secondo Wto e Fmi, uscirebbe vincitore. E Pechino affila le armi: il ministro del Commercio Wang Hejun non ha atteso nemmeno 24 ore per avvisare che la Cina «è pronta ad adottare qualsiasi misura per difendere i propri interessi».
Wang ha aggiunto che le raccomandazioni rese note ieri dal ministero del Commercio statunitense (dazi del 53% sull’acciaio importato dalla Cina e da altri 11 Paesi - in alternativa a tariffe del del 24% contro tutti i Paesi - e del 23,6% sull’alluminio - o in alternativa un dazio generalizzato del 7,7%) non trovano fondamento nella realtà. L’acciaio cinese, che pure è pesantemente sussidiato dallo Stato (come l’alluminio), rappresenta appena l’1% dell’import Usa.
In campagna elettorale, il presidente statunitense Donald Trump aveva minacciato dazi del 45% contro il made in China e di dichiarare Pechino un «manipolatore dei tassi di cambio» per la «svalutazione» dello yuan. Le misure finora prese non arrivano a tanto, ma i falchi della sua Amministrazione, anche dopo l’uscita di Steve Bannon, si sentono già sulle barricate. A gennaio, il segretario al Commercio, Wilbur Ross, ha dichiarato che «la guerra commerciale è già iniziata da anni, ora le truppe Usa sono in trincea». Qualche ora prima, Washington aveva annunciato dazi sull’import di pannelli solari (30%) e lavatrici (dal 20 al 50%), pensati come un muro per tenere alla larga i prodotti cinesi.
Un deficit incolmabile?
L’obiettivo di ridurre il disavanzo commerciale Usa, in gran parte generato dagli scambi con la Cina, sembra tuttavia destinato a restare una chimera. Alla fine del 2017, dopo un anno di «America First», il deficit si è mostrato più forte della retorica ed è cresciuto del 12%, raggiungendo quota 566 miliardi di dollari (beni e servizi), ai massimi dalla recessione del 2008. Se si escludono i servizi, il deficit nello scambio di merci schizza a 810 miliardi di dollari (+7%). E il rosso con la Cina (solo beni), invece di diminuire come Trump voleva, è aumentato dell’8,1%, a quota 375,2 miliardi di dollari.
Il disavanzo commerciale degli Usa (complessivo) ha sottratto al Pil 113 punti percentuali negli ultimi tre mesi del 2017, quando la crescita è stata del 2,6%. L’Amministrazione Trump ripete come un mantra che le scorrette pratiche commerciali dei partner, Cina (e Messico) in testa, distruggono aziende e posti di lavoro americani ed è convinta che un minor disavanzo porterebbe la crescita Usa stabilmente sopra al 3%. Alcuni report mostrano che nell’arco di 10 anni, le importazioni dalla Cina hanno cancellato 2,4 milioni di posti di lavoro in America. Altri studi rilevano come, nel solo 2015, l’export Usa in Cina abbia sostenuto 1,8 milioni di posti di lavoro, che sarebbero minacciati dalla eventuali ritorsioni di Pechino.
Un muro contro il Made in China
I dazi su pannelli solari e lavatrici sono stati decisi sulla base di una legge del 1974 che consente ad aziende statunitensi di chiedere misure di salvaguardia se accusano «danni significativi» da improvvisi aumenti delle importazioni. L’ultimo a invocare questa norma era stato George W. Bush nel 2002, per proteggere la siderurgia.
Ma per difendere la produzione nazionale di acciaio e alluminio, l’Amministrazione Trump non ha esitato a tirare in ballo il concetto di sicurezza nazionale (in base a una legge del 1962, quasi mai usata): già ad aprile del 2017 il ministero del Commercio era stato incaricato di esaminare se la dipendenza da fornitori stranieri non metta in pericolo la capacità di difesa militare del Paese, dato che si tratta di materie prime vitali nella produzione di armamenti. I risultati dell’indagine sono stati illustrati a Trump a gennaio. Ora arriva la minaccia dei super dazi.
Contro Pechino, l’Amministrazione ha annunciato anche misure per punire il «furto» di segreti industriali, regolarmente perpetrato dalle aziende cinesi, attraverso le disposizioni che, in alcuni settori, impongono a chi opera in Cina la costituzione di joint venture con partner locali e la condivisione di tecnologie e know how.
Quello che non manca a Washington è la creatività nell’immaginare ritorsioni: dopo aver flirtato a lungo con la Border adjustment tax, una sorta di tassa all’import con annesso effetto sussidio all’export e fonte sicura di enormi problemi nell’ambito della Wto, dal cilindro dell’Amministrazione, il 12 febbraio, è uscita la «reciprocal tax»: una tassa che avrebbe dovuto permettere agli Usa di giocare ad armi pari la partita del commercio internazionale. Ipotesi già tramontata (forse).
Stop alle scorribande finanziarie
Washington ha anche alzato la guardia sulle acquisizioni cinesi di aziende Usa. Il caso della Borsa di Chicago è emblematico del nuovo clima. Il Committee on Foreign Investment (Cfius) l’agenzia che vigila sulle acquisizioni (ma sulla Borsa di Chicago era competente la Sec) ha adottato una linea molto più rigida da quando Trump è alla Casa Bianca, tanto che in un anno ha acceso luce verde su una sola operazione. Nel 2017, sotto la sua scure è caduta, tra le altre, un’operazione da 1,3 miliardi di dollari.
In Congresso sono in discussione due proposte di legge che mirano a impedire che tecnologie sensibili finiscano in mano cinese. Una volta tanto, Casa Bianca, Repubblicani e Democratici sono d’accordo nel voler rafforzare i poteri del Cfius. La portata dell’intervento lascia invece perplessa parte della Corporate America (soprattutto i big dell’hi-tech, come Google, Alphabet, Facebook, Ibm, Intel), che teme una stretta eccessiva e sta cercando di annacquare il provvedimento.
Sul versante della tutela delle tecnologie nazionali dalle scorribande di società cinesi a vario titolo finanziate dallo Stato, gli Stati Uniti, va detto, si muovono in sintonia con l’Europa.
Lo scontro nella Wto
Accanto a queste misure, Washington continua la politica di ricorsi alla Wto. Sono 31 le dispute che hanno visto e vedono Usa e Cina fronteggiarsi: 21 promosse dagli americani, 10 dai cinesi. Tra i dossier più recenti c’è quello delle società di Stato, che, grazie alle sovvenzioni del Governo cinese, godono di «vantaggi illegittimi» nei confronti dei concorrenti e generano un «ammontare enorme di produzione» che non potrebbe esistere senza il sostegno pubblico (è per esempio il caso dell’alluminio e dell’acciaio). Peccato che gli Usa stiano contemporaneamente paralizzando il meccanismo di risoluzione delle dispute della Wto, bloccando il rinnovo dell’organo di appello, accusato di penalizzarli.
La reazione di Pechino
La settimana scorsa, la Cina ha presentato un ricorso alla Wto, nel quale giudica i dazi Usa su pannelli solari e lavatrici «non coerenti» con le norme internazionali e chiede compensazioni. Lo stesso hanno fatto Taiwan e Corea del Sud. Una richiesta di consultazioni è stata formalizzata anche da Singapore e dall’Unione Europea (su spinta della Germania). La mossa su acciaio e alluminio non potrà che esacerbare i rapporti tra Usa e Cina, che anche in questo caso potrebbe contare sulla reazione della Ue, come pure di Canada e Giappone, i maggiori esportatori di prodotti siderurgici negli Usa. Il Governo cinese ha già chiarito che userà qualunque mezzo riterrà idoneo a difendere i propri interessi, da nuovi ricorsi alla Wto a restrizioni all’import.
Pechino ha anche recentemente avviato un’indagine antidumping sulle importazioni di sorgo e di fagioli di soia dagli Stati Uniti, sostenendo che siano incentivate da sussidi pubblici illegittimi. È la ritorsione che le associazioni dell’agroalimentare Usa temono e che le ha sempre spinte a mettere in guardia contro derive protezionistiche. I prodotti agricoli rappresentano il 13% dei quasi 170 miliardi di dollari di export Usa in Cina. I fagioli di soia, da soli, valgono oltre 12 miliardi.
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