«Al momento l'accordo, con tutti i suoi difetti, funziona e sta rinviando di 10/15 anni la visione nucleare iraniana». Gadi Eizenkot non è un israeliano qualunque: criticando il ritiro americano dall'accordo e l'entusiasmo di Bibi Netanyahu, faceva pesare l'opinione dei vertici militari. Già comandante della Golani, la brigata d'élite della fanteria d'Israele, Eizenkot è il capo di stato maggiore delle forze armate: l'uomo cui spetta la difesa del paese.
La settimana prima il giudizio di Eizenkot era stato anticipato da una lettera aperta firmata da 26 fra ex comandati e capi dei vari servizi d'intelligence israeliani: «L'abbandono americano non minerà solo l'accordo ma anche la sicurezza del Paese», avevano scritto. Nel sistema israeliano non è la prima volta che l'apparato di sicurezza mette in discussione le intenzioni della politica. Contro la volontà di una buona parte del governo di annettere la Cisgiordania, più di una volta i militari hanno ricordato che la fine dell'occupazione e uno stato palestinese sarebbero utili alla sicurezza d'Israele, oltre ad essere un atto di giustizia.
Governo criticabile, ma non si mette in dubbio l’obbligo di obbedire
Tuttavia nella democrazia israeliana è chiaro anche ai militari che le decisioni prese dal governo in carica possono essere criticate ma non disattese. Solo alla vigilia della guerra del giugno 1967 i militari favorevoli a un'azione preventiva contro Egitto e Siria, con una specie di golpe banco imposero Moshe Dayan al dicastero della Difesa contro la volontà di Levi Eshkol, il premier favorevole a una trattativa.
In uno stato militarizzato di cittadini-soldato molti generali hanno assunto cariche civili importanti dopo aver lasciato la divisa. Ma solo due ex capi di stato maggiore sono diventati premier: Yitzhak Rabin e Ehud Barak. Dayan non fu
mai l'uno né l'altro, sebbene fosse l'epitome del colono combattente israeliano; Ariel Sharon solo primo ministro. Ma per chiunque si candidi alla guida del paese, avere un passato nel servizio attivo è sempre molto utile: Tzipi Livni era una agente del Mossad e Bibi Netanyahu un soldato delle Sayeret Matkal, i reparti speciali.
Il nervosismo del Mossad
Il modo col quale affrontare la minaccia iraniana è molto dibattuto. È piuttosto difficile discernere la gravità del pericolo dall'interesse politico di Bibi Netanyahu di enfatizzarlo. Il premier continua a rischiare l'impeachment per un paio di scandali e il suo potere è costantemente minacciato dalle ambizioni di Avigdor Lieberman e Naftali Bennett, i suoi partner di governo. Nella sceneggiata televisiva sui segreti nucleari iraniani con l'esibizione di grafici e faldoni, Netanyahu non ha raccontato nulla di nuovo ma ha svelato la presenza attiva dei servizi segreti israeliani a Teheran, indispettendo il Mossad.
La fontiera nord va difesa: attacco preventivo o attesa?
Tuttavia un conto è l'accordo sul nucleare iraniano che molti israeliani, soprattutto i responsabili della difesa nazionale, ritengono utile; un altro è la minaccia fisica alle frontiere settentrionali: i soldati iraniani in Siria e l'arsenale missilistico di Hezbollah in Libano sono un'evidenza, non un'opinione. Su questo in Israele c'è una condivisione assoluta. Da più di un anno la discussione tra i vertici militari è come affrontare il problema, non se si tratti di una minaccia: se agire o no con un attacco preventivo o attendere l'azione dell'avversario che darebbe a Israele un “vantaggio morale”; se cercare di limitare lo scontro su un “terreno neutro” come la Siria e il Libano o colpire direttamente in territorio iraniano; quali obiettivi attaccare per primi e quali evitare.
In questa fase nella quale il conflitto sembra così ineluttabile, è il vertice politico quasi a desiderarlo e i militari a propendere per una soluzione negoziata: in Israele questo non è un paradosso. Su un punto, tuttavia, ministri e generali sono d'accordo: se alla diplomazia sarà data una possibilità, è su Vladimir Putin che bisogna contare, non su Donald Trump.
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