Strette sulla diffusione di contenuti online. Tasse alle vendite dei giganti dell'ecommerce. Norme più rigide sull'utilizzo di dati personali, a partire dalla maxi-impalcatura del Gdpr: il general data protection regulation, il regolamento sulla protezione dei dati applicato dallo scorso 25 maggio. Dopo gli anni dell'incanto e dei «pionieri del tech», i regolatori internazionali stanno fissando qualche paletto in più nel far west dell'industria tecnologica globale. Non si parla solo della maxi-sanzioni comminate dalla Commissione europea a Google (2,4 miliardi di euro) o del suo pressing a Mark Zuckeberg e Facebook, ma di norme rette su un doppio presupposto: uniformare le leggi delle imprese della new economy a quelle delle aziende “normali” o creare parametri inediti, calibrati su modelli di business che sfuggono alle vecchie logiche commerciali.
Le aziende del mondo digitale sono entrate, da tempo, in una fase di maturità che fa cadere «l'eccezionalità» rivendicata quando si trattava di respirare sotto al peso schiacciante della old economy. Quindi devono operare ed essere tassate con regole simili a chi concentra il suo business nel mondo offline, sempre che abbia ancora senso questa distinzione.
Il copyright e la tassa sui link
Lunedì 2 luglio l'Europarlamento, riunito in plenaria a Strasburgo, voterà la direttiva proposta dalla Commissione europea nel 2016 per la creazione di un Digital single market, il mercato unico digitale in Europa. Il testo è appena uscito dal vaglio della Commissione giuridica dell'Eurocamera con due modifiche di peso sul fronte dei diritti d'autore. A scatenare le polemiche sono soprattutto gli articoli 11 e 13 del testo. L'articolo 11 prevede l'implementazione di quella che è stata ribattezzata subito «link tax», la tassa sui link. La regola imporrebbe a colossi aziendali come Google o Facebook di pagare gli editori ogni volta che linkano un articolo sulle proprie piattaforme. Come?
Rendendo obbligatoria la richiesta di una licenza per pubblicare i cosiddetti snippet: le anticipazioni dell'articolo dove si possono leggere titolo e prime righe, utilizzati per catturare i navigatori prima di rimandare al contenuto originale. Un “ritaglio” che finisce, spesso, per sostituirsi alla fruizione integrale dei contenuti, soprattutto quando i lettori si trovano di fronte alla necessità di pagare. L'articolo 13 tocca da vicino gli utenti, perché richiede a piattaforme di largo utilizzo come YouTube o Instagram di installare dei filtri (upload filter) che che impediscano ai navigatori di caricare materiale protetto da copyright. Fino ad oggi, social network e aziende tech non erano tenute a vigilare sulla violazione dei diritti d'autore sulle proprie piattaforme. Né, a quanto pare, sono intenzionate a farlo nel breve termine.
Secondo il Financial Times, Google avrebbe già scritto alle aziende beneficiarie della Google digital news initiative (un programma che offre finanziamenti alle iniziative editoriali più innovative) di fare pressing sugli europarlamentari perché blocchino le modifiche alla direttiva. La Commissione è sempre riuscita a tenere testa al lobbying del colosso californiano, ma l’Europarlamento potrebbe essere più vulnerabile alle sue ingerenze. Oltretutto l’argomento della «tassa sui link», per come è stato interpretato, tocca anche le corde degli attivisti per il diritto alla Rete libera, rappresentati all’Eurocamera da una schiera abbastanza trasversale di forze politiche. Incluso, da oggi, il Movimento cinque stelle: il vicepremier Luigi Di Maio si è schierato apertamente contro la direttiva, accusata di «mettere il bavaglio alla Rete». Se il testo dovesse restare come è stato presentato, ha aggiunto Di Maio, il governo «sarebbe pronto a non recepirla»: a non accogliere le sue linee guida nel diritto italiano, anche se in realtà non si tratta di una scelta di un obbligo fissato dal diritto comunitario.
Il negozio online paga le tasse dove vende
L'Europa si è intestata alcune delle battaglie più dirompenti contro lo strapotere, o l'assenza di regole, delle aziende tecnologiche. Ma il quadro inizia a cambiare anche negli Stati Uniti. La Corte suprema, il tribunale di ultima istanza degli Stati Uniti, ha stabilito che le aziende di e-commerce dovranno pagare le tasse dove vendono i propri prodotti. Il giudizio va a risolvere una controversia fra lo stato del South Dakota e la piattaforma di shopping online Wayfair, ribaltando una sentenza che risaliva al 1992. All'epoca la Corte aveva deciso che gli Stati non potevano raccogliere tasse da aziende prive di una «connessione fisica» con la loro giurisdizione. Peccato che da allora l'e-commerce sia cresciuto fino alle dimensioni-monstre di oggi, da Amazon (che capitalizza 1.500 miliardi di dollari) alle tante realtà locali degli Usa, comunque forti di ricavi da centinaia di milioni di dollari l'anno.
Il South Dakota ha imposto una legge che fissa un'aliquota del 4,5% per tutte le aziende online che superano i 100mila dollari di vendite o più di 200 transazioni nello Stato, multando tre piattaforme (Wayfair, Overstock e Newegg ) per aver violato le regole. Dalla contesa fra stato e Wayfair è scaturito un verdetto che farà giurisprudenza, oltre a rianimare la polemica sul gettito fiscale perso “grazie” ai benefit attribuiti alle aziende del Web. Secondo una stima diffusa dal New York Times, il regime esentasse goduto dei retailer online procava una media di 33 miliardi di dollari sottratti all'erario dei singoli stati.
Il Gdpr e la (lunga) gestazione della Web tax
Tornando al di qua dell'Atlantico, l'Europa ha segnato un'altra svolta con i 99 articoli del Gdpr: il general data protection regulation, un regolamento generale sulla protezione dei dati entrato in vigore nel 2016 e divenuto applicativo dallo scorso 25 maggio. Tra i punti caldi del testo ci sono l'obbligo di richiedere il consenso in maniera chiara e comprensibile (articolo 7), la portabilità dei dati (articolo 2o), la notifica di violazione di dati entro 72 ore (articolo 33), la designazione di un «responsabile protezione dati» che faccia da vigilante sul rispetto delle regole (articolo 37). Le violazioni sono sanzionate con multe che possono arrivare fino a massimi di 20 milioni di euro o il 4% del fatturato annuale (quando è superiore a 20 milioni di euro). Le misure hanno fatto scattare, a tempo di record, i primi ricorsi: nel giorno stesso di debutto del Gdpr un'associazione no-profit, None of your business, ha sporto quattro reclami accusando di «consenso forzato» Google, Facebook e aziende affiliate come Whatsapp e Instagram.
Un secondo pilastro normativo, e fiscale, dovrebbe arrivare con un progetto tanto pubblicizzato quanto indefinito: la cosiddetta web tax, la tassa sul web. Lo sbocco finale della legge (tecnicamente una direttiva: un atto che va recepito dai singoli paesi e impone di raggiungere un target) è di consentire agli Stati membri di tassare i profitti generati sulla propria giurisdizione, a prescindere dalla collocazione fisica dell'azienda. La Commissione europea ha avanzato lo scorso 21 marzo due diverse proposte: una proposta ad interim per tassare al 3% i ricavi delle aziende digitali che fatturano almeno 50 milioni nel perimetro Ue; una proposta di lungo termine, successiva, per tassare gli utili generati in Europa da aziende digitali che raggiungono nel corso di un anno almeno 7 milioni di ricavi l'anno in un dato paese, 100mila «utenti» o 3mila contratti di business. L'argomento ha già provocato diverse spaccature su scala europea, complicando le speranze del commissario Pierre Moscovici di portare a casa l'approvazione di Europarlamento e Consiglio in tempi accettabili.
© Riproduzione riservata