A meno di 250 giorni dalla Brexit, e mentre la finanza già «trasloca da Londra», c’è un’unica certezza sul tavolo delle trattative Londra-Bruxelles: l’assenza di un patto, o anche solo di un accordo di massima per il divorzio della Gran Bretagna dall’Unione europea. Uno scenario che rischia di tradursi in una Brexit no-deal, una rottura fra Londra e Bruxelles sprovvista di qualsiasi accordo bilaterale. Fino a poche settimane fa sembrava un salto nel vuoto, ma ora l’ipotesi prende corpo anche fra le file del governo. Liam Fox, segretario britannico del Commercio, ha dichiarato in un’intervista al Sunday Times che la probabilità di una cesura «dura e pura» arriva al 60%, contro il 40% di chance residue per una separazione consensuale. I più ottimisti sperano in un rush dell’ultima ora che consenta al primo ministro britannico Theresa May di strappare un’intesa adatta, trovando un compromesso sui tanti nodi irrisolti. I più pessimisti fanno notare che quei nodi sono diventati troppi, dalle regole sul commercio alla libera circolazione delle persone.
May ha annunciato di aver «preso il controllo» sulla gestione dei negoziati, sottraendo poteri al ministero apposito (quello per la Brexit, fresco di addio del titolare Davis Davis), mentre la Ue ha accettato un periodo di transizione che farà slittare l’addio di Londra dal 29 marzo 2019 al dicembre 2020. Il lasso, però, rischia di essere insufficiente per appianare le divergenze sul tavolo. Cosa succederebbe, davvero, in caso di uno strappo fra l’Isola e il Vecchio Continente?
I problemi per il commercio (e i trasporti)
Primo tasto dolente, il commercio. In assenza di un accordo bilaterale, i rapporti fra Regno Unito e Ue finirebbero sotto
il cappello delle regole della World trade organization, l’organizzazione del commercio mondiale. La Gran Bretagna si ritroverebbe
improvvisamente nel ruolo di paese terzo rispetto all’Unione europea, sobbarcandosi tutte le tariffe per importazioni ed esportazioni
imposte ai paesi extraUe. Questo rischia di tradursi in rialzi nei costi della merce venduta, oltre a creare intralci di
carattere normativo: alcuni prodotti, sopratutto in ambito alimentare e farmaceutico, dovrebbero sottoporsi a una nuova trafila
per ottenere (o vedersi negare) il via libera per la compravendita in Europa.
A fare le spese della stretta sarebbero anche i trasporti, «severamente colpiti» dal nuovo regime: come scrive la Commissione, «dazi doganali, controlli sanitari e fitosanitari ai confini potrebbero cause ritardi significativi, ad sempio nei trasporti su strada, e difficoltà per i porti». Senza dimenticare le rotte aeree. Michael O’Leary, il numero uno della compagnia low cost Ryanair, si è già mostrato preoccupato: «Non esiste - ha detto - un meccanismo legale che permette ai vettori di operare in caso di Hard Brexit o di Brexit senza accordi».
Sul piano economico, il Fondo monetario internazionale ha pronosticato conseguenze di lungo termine per entrambi le parti in gioco: il Regno Unito lascerebbe sult terreno il 4% del Pil da qui al 2020, mentre il resto della Ue cederebbe comunque l’1,5% del suo prodotto interno lordo.
La questione della cittadinanza
La Commissione europea è sintetica: «Non ci sarebbero accordi specifici per i cittadini Ue nel Regno Unito, e per i cittadini
del Regno Unito nella Ue». Calato nella pratica, il clima di incertezza che ne scaturirebbe potrebbe innescare diversi problemi.
Da un lato si annuncia la fine della libera circolazione dei cittadini, inclusi i professionisti qualificati: un’incognita
per le stesse aziende britannica, dove il personale Ue rappresenta in media oltre il 20% dell’organico. Dall’altro si verrebbe
a creare una sorta di limbo normativo per i quasi 4 milioni di europei residenti nel Regno Unito e gli 1,2 milioni di cittadini
britannici che vivono nella Ue, in attesa di norme che definiscano le condizioni dei primi e dei secondi.
Fuga delle banche da Londra
È l’allarme che spaventa di più il cuore finanziario della City: la fuga delle grandi banche da Londra, in rotta verso lidi sicuri come Francoforte o Parigi. Sia una Brexit senza accordi, sia la Brexit ipotizzata da Theresa
May farebbe perdere agli istituti bancari il «passaporto» europeo, ovvero la possibilità di operare nella Ue anche senza una
presenza fisica. È il motivo che sta spingendo diversi istituti ad aprire una filiale nel Continente o ad avviare fusioni
con società irlandesi, come nel caso di Bank of America Merryl Linch.
Che fine faranno i fondi Ue?
Secondo i dati del parlamento britannico, nel periodo 2014-2020 il Regno Unito è risultato intestatario di fondi Ue da due canali principali: 17,2 miliardi euro
in arrivo dai fondi strutturali e di investimenti e 22,5 miliardi di euro dal Fondo europeo agricolo di garanzia. In caso
di una Brexit senza accordi, non ci sarebbe margine per conservare i finanziamenti Ue.
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