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Dossier La flat tax di Orban attira in Ungheria una nuova impresa italiana al giorno

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Dossier | N. (none) articoli Le inchieste di Fiume di denaro

La flat tax di Orban attira in Ungheria una nuova impresa italiana al giorno

Passeggiare per le strade di Budapest è un tuffo nell'italianità. Ovunque ti giri vedi un ristorante o un marchio italiano nei negozi. Se alzi un po’ la testa è un fiorire di manifesti e locandine che annunciano i concerti degli artisti di casa nostra: Ennio Morricone, Toto Cutugno, Guido e Maurizio De Angelis. Un vero idolo, inoltre, è Marco Rossi, difensore, tra le altre squadre, di Torino, Brescia e Sampdoria. Nel 2017 ha vinto lo scudetto in Ungheria con l'Honved, che lo aspettava da 24 anni e dal 20 giugno 2018 è l'allenatore della nazionale di calcio. Per non parlare poi di chi, italianissimo, non ha bisogno di farsi pubblicità ed è in Ungheria da una vita, come Rocco Siffredi, attore e ormai sempre più imprenditore nella sua Accademia a 30 chilometri circa dalla capitale.

Loro fanno vetrina ma dietro c'è un esercito di società a capitale italiano che continua a crescere giorno dopo giorno da anni, indipendentemente dalla flat tax per imprese e persone fisiche, che ha fatto recentemente dell'Ungheria un polo di attrazione irresistibile.

Il particolare regime fiscale dell'Ungheria – 9% per le società dal 2017 e 15% per le persone fisiche dal 2011 – è stato messo sotto la lente della Commissione europea il 7 marzo dello scorso anno. L'Ungheria, con altri sei Paesi (Lussemburgo, Belgio, Olanda, Malta, Cipro e Irlanda), viene accusata di aggressività fiscale a scapito degli altri Stati dell'Unione europea anche se molte imprese sono arrivate qui prima della riforma fiscale che nel 1997 portò la tassazione sulle società al 18%.

Il 23 maggio 2018, il Consiglio europeo concluse che in Ungheria «sono state attuate misure per migliorare il sistema fiscale ma permangono alcuni problemi. Sebbene in calo, il cuneo fiscale sul lavoro, soprattutto per certi gruppi a basso reddito, rimane elevato rispetto al resto dell'Ue. La complessità del sistema fiscale, associata alla presenza costante di imposte settoriali, resta un punto debole. Misure contro le strategie di pianificazione fiscale aggressiva sono essenziali per impedire distorsioni della concorrenza tra le imprese, garantire il trattamento equo dei contribuenti e salvaguardare le finanze pubbliche. Le ricadute delle strategie di pianificazione fiscale aggressiva tra gli altri Stati membri impongono un coordinamento delle politiche nazionali a complemento della legislazione dell'Ue. L'Ungheria registra afflussi e deflussi di capitali relativamente elevati attraverso società veicolo, che sono disgiunti dall'economia reale. L'assenza di ritenute alla fonte sui pagamenti di dividendi, interessi e royalty in uscita (vale a dire effettuati da residenti nell'Ue a residenti in un paese terzo) da parte di società con sede in Ungheria può far sì che tali pagamenti sfuggano del tutto all'imposizione fiscale se non sono tassati nella giurisdizione di riscossione».

IL CARICO TRIBUTARIO PER LE IMPRESE
Le imposte che gravano sulle società in Ungheria (Fonte: elaborazione Sole-24 Ore)

Per bilanciare la bassa imposizione fiscale su imprese e persone fisiche, l'Ungheria ha scelto di aumentare le imposte sui consumi. L'Iva è generalmente al 27% anche se esistono aliquote al 18% e al 5% (come ad esempio per le nuove costruzioni). «Le aliquote sono alte ma c'è la certezza del diritto – afferma Francesco Maria Mari, presidente della Camera di commercio italiana per l'Ungheria – e se un contribuente chiede un rimborso lo Stato lo accredita sul suo conto corrente in meno di 40 giorni».

Il boom del mattone made in Italy
Ogni giorno in Ungheria nasce una società a capitale italiano. A farla da padrone sono le attività commerciali all'ingrosso e al dettaglio (circa un terzo del totale). A ruota le attività immobiliari (le società sono oltre 400), manifatturiere (oltre 300), professionali e via di questo passo.

Il calcolo è stato fatto dalla banca dati del gruppo Itl nato dall'intuito dell'imprenditore veneto Alessandro Farina che, arrivato a Budapest nel '92, tre anni dopo ha fondato un gruppo che oggi assiste le imprese italiane che entrano nel mercato ungherese, spaziando dalla finanza all'audit, passando attraverso la consulenza e la presenza in campo immobiliare.
L'archivio di Itl Group conta oggi 2.875 aziende italiane, per un totale di 26.097 dipendenti e un fatturato complessivo di oltre 3,4 miliardi di euro. Quelle grandi, vale a dire con oltre 250 dipendenti assunti, sono 16 con un totale di 13.710 lavoratori subordinati e un fatturato di oltre 1,1 miliardi. La maggior parte sono piccole o piccolissime e spesso non indicano il numero di dipendenti. La maggior parte si trova nell'area intorno a Budapest ma non mancano quelle distribuite nelle zone di confine.
«Questo Paese ha assistito ad una forte accelerazione di imprese italiane a partire dal 2012 – spiega Farina, amministratore unico di Itl Group -. Dalle 10-15 nuove società al mese si è passati alle 25-30 al mese, con un trend che ormai si è stabilizzato. Non tutte sopravvivono. Ogni anno il saldo positivo tra iscritte e cancellate è di un centinaio di società».

PRESSIONE FISCALE SUI SALARI DEI LAVORATORI UNGHERESI NEL 2019
(Fonte: Maszsz, Confederazione dei sindacati ungheresi)

Chi fa ricerca paga la metà
Non si può negare che l'aspetto fiscale abbia giocato un ruolo fondamentale almeno negli ultimi 22 anni che hanno visto le aliquote sul reddito d'impresa scendere dal 18% al 9%, quindi con un dimezzamento secco, senza dimenticare che chi investe in ricerca e sviluppo paga solo il 4,5% di imposte e senza dimenticare infine che i tax ruling (patti bilaterali e riservati tra Stato e investitore) sono anche qui una pratica diffusa, soprattutto con le grandi imprese e le multinazionali.
Fare ricerca e sviluppo in casa paga. «L'Ungheria vuole diventare un polo di attrazione nel know-how – spiega Mari – Non a caso il Paese sta attirando eccellenze, comprese quelle ungheresi che erano espatriate». Farina concorda con Mari: «L'Ungheria sta facendo un lavoro di riqualificazione sempre più attraverso ricerca e sviluppo».
Questa politica sembra dare i suoi frutti, visto che nel 2017 (ultimo dato disponibile) le casse dello Stato ungherese hanno incamerato 14.400 miliardi di fiorini, pari a circa 45 miliardi di euro, in crescita rispetto al 2016. Le tasse sulle imprese hanno fruttato oltre 711 miliardi di fiorini, pari a più di 2 miliardi di euro (in calo rispetto al 2016).

Al netto di questo, l'Ungheria ha scelto di accompagnare chi è andato lì ad investire, sviluppando molto infrastrutture e servizi. Per fare un esempio, fino a 20 anni fa circa le autostrade si distribuivano a raggiera partendo dall'epicentro Budapest ma si fermavano a circa 60 km dalla capitale. Ora invece autostrade e superstrade attraversano l'intero Paese.

Non solo fisco
Giacomo Pedranzini non cambierebbe l'Ungheria con altri Paesi. Lui, arrivato qui nel '94 dalla Valtellina, è managing director di Kometa, una società che produce e lavora insaccati. Esporta in più di 30 Paesi (Italia compresa), occupa oltre 700 dipendenti ed è presente nel ciclismo con la squadra Polartec-Kometa della Fondazione Contador.
Pedranzini fa parte della prima ondata di imprenditori, attratti dalle privatizzazioni avviate in Ungheria dopo la fine del regime comunista. Lui 25 anni fa rilevò un impianto industriale di proprietà dello Stato, nel quale si macellavano suini, che dava lavoro a 997 persone.
Pedranzini dà una testimonianza diretta dell'evoluzione del Paese. «C'è un'amministrazione che funziona – spiega – e che rende il nostro lavoro molto più facile. Sono le complicazioni, l'eccessiva burocratizzazione e l'eccessiva regolamentazione che danno adito alla possibilità di cercare scappatoie o rincorrere soluzioni fuori dalle regole. La semplicità e la ragionevolezza del Fisco permettono a chi vuole lavorare di farlo con la massima trasparenza e senza bisogno di ricorrere a mezzi che non giustificherebbero gli sforzi e i rischi necessari».

«Qui c'è un sistema-Pese che funziona», afferma Giuseppe Caracciolo, commercialista che guida a Budapest Karma consulting, proiezione ungherese dello studio Caracciolo Bernardi e associati di Treviso. Caracciolo fa il pendolare tra i due studi: una settimana da una parte e la successiva dall'altra. Da oltre 20 anni fornisce supporti professionali agli italiani che vogliono investire in Ungheria. «Una srl si costituisce in un solo giorno – continua nel ragionamento Caracciolo – e viene omologata in tre giorni e le dichiarazioni fiscali si fanno rapidamente. Anche la Giustizia funziona. Ci sono tre gradi di giudizio come in Italia ma i Tribunali sono efficienti».

Ma anche qui cominciano a vedersi alcune crepe e Farina mette in guardia dal rischio che l'Ungheria possa diventare «un Paese burocraticamente complesso».

Nel cuore dell'Europa
A Nagykallo, estremo nord est dell'Ungheria, ai confini con Ucraina, Romania e Slovacchia, Renato Fava, managing director di Tecnica Ungheria, apre le porte dello stabilimento nel quale vengono prodotti fino a 4mila paia al giorno di scarponi da sci Nordica. Fava vive da 10 anni a Nyíregyháza, una città a 13 chilometri dallo stabilimento, che non offre la bella vita di Budapest ma che rappresenta uno snodo importante per i traffici commerciali. «Questa è una zona geografica molto vantaggiosa – afferma – che si trova sul corridoio che parte da Venezia e arriva a Kiev». Questo Paese negli ultimi 25 anni si è dotato di strade e autostrade a scorrimento veloce e, come ricorda Farina, la prima a essere ultimata fu l'autostrada con Vienna tra il '93 e il ‘94.

Questa felice collocazione geografica ha contribuito moltissimo ad attrarre imprese da tutta Europa e non solo. Nella zona, ad esempio, ci sono gli stabilimenti di Lego, Michelin, Electrolux e le italiane Serioplast (industria meccanica) e Farmol (igiene personale e della casa).
A mezz'ora di macchina da Nagykallo sorge Debrecen, ai confini con la Romania. Qui viene ospitato il secondo aeroporto del Paese che ha aumentato i passeggeri del 14% tra il 2017 e il 206 (ultimo confronto disponibile). Non c'è quindi da meravigliarsi se – dopo l'arrivo di Opel, Suzuki, Audi e Mercedes in altre aree del Paese che qui impiegano in totale 20.658 operai, che nel 2017 hanno complessivamente prodotto 550 mila automobili per un valore di 26,1 miliardi di euro – proprio a Debrecen la Bmw abbia deciso di investire oltre un miliardo di euro per produrre auto convenzionali ed elettriche. L'impianto produrrà 150mila vetture all'anno. Secondo le prime valutazioni del ministro degli Esteri Peter Szijjártó l'organico iniziale sarà di 1000 addetti e le assunzioni partiranno dall'anno prossimo, quando Bmw prenderà possesso del terreno.
Lo scorso anno – secondo il sito autopro.hu – le società automobilistiche hanno investito complessivamente in Ungheria oltre 2,6 miliardi di euro, creando 10.964 nuovi posti di lavoro. La Germania si è dimostrata ancora una volta il maggior investitore, seguita dagli Stati Uniti.
Hays Plc, società quotata al London stock exchange, tra i leader mondiali nella selezione del personale specializzato ha stimato che gli stipendi degli ingegneri nel nuovo stabilimento della Bmw varieranno tra 1.400 e 1.700 euro al mese per i profili junior e i 2.000 e 2.700 euro per le figure senior.

Il polo di Nagikanizsa
Nagikanizsa, a sud ovest dell'Ungheria, è un altro polmone industriale del Paese. Ospita General electric (qui dal 1965) che conta circa 3mila dipendenti e non mancano le presenze italiane come Dub Pumps e North Plastik. Arrivando da Budapest si capisce immediatamente che è un'area lontana anni luce dalla capitale, nonostante sia poco distante dal lago Balaton, una delle maggiori attrazioni turistiche dell’Ungheria.
L'area, ai tempi del comunismo, era votata alla produzione di bottiglie e alla trasformazione della frutta. Il paese è anonimo e silenzioso ma nei dintorni si susseguono capannoni (molti dei quali residuo dell'epoca comunista e abbandonati a se stessi) come ad esempio quello di Electric motors europe (Eme Hungary) del gruppo veneto Orange1. Orange1 Team Grt si è confermato vincitore della edizione 2019 nella categoria Gtd (Gran Turismo Daytona) della gara automobilistica 24 Ore di Daytona. Lo stabilimento costruito a Nagykanizsa venti anni fa produce sì motori elettrici ma che vengono impiegati negli ascensori, pompe idrauliche, compressori, cancelli elettrici, generatori eolici e idroelettrici.
Per il momento lo sviluppo dei motori elettrici per automobili non rientra nei radar di Eme Ungheria anche se l'azienda sta studiando quelli per la trazione degli autobus e dei muletti industriali. Insomma mercati di nicchia, visto che è impossibile competere con i big player sui mercati globali.
Mauro Grana, ceo di Eme Hungary, spiega perché hanno scelto di stabilirsi proprio in Ungheria. «Nel '98 è stata svolta un'indagine comparativa tra i mercato dell'Est Europa – afferma Grana – e al termine, dopo aver visitato Romania, Polonia, Slovenia e Ungheria, decidemmo per quest'ultima. Non aveva senso andare in Romania e Polonia a causa dei salari e della logistica, così come scartammo la Slovenia a causa di vincoli nell'azionariato. Per i primi dieci anni ci siamo autofinanziati per fare poi ricorso alle banche, che nel frattempo si sono strutturate».
La scelta di andare oltrefrontiera fu dettata dalla necessità di produrre in proprio uno dei principali componenti del motore elettrico che prima venivano acquistati a caro prezzo sul mercato e ancora oggi una delle leve imprenditoriali del gruppo non è tanto l'agevolazione fiscale, quanto quella che, in una parola, Grana definisce «sinergia produttiva».
Nell'impianto ungherese vengono prodotti o finiti 3.600 motori elettrici ai quali si aggiungo i 2.500 al giorno negli stabilimenti italiani di Rimini, Parma, Torino, Vicenza, Feltre e Reggio Emilia.

Le ispezioni del Fisco
I rapporti con il Fisco sono improntati alla semplicità e a nessuno conviene evadere imposte così basse, anche perché comunque non mancano i controlli sulle aziende e sulle attività, come testimoniano imprenditori e manager italiani.
Grana sottolinea che l'azienda è seguita da un solo fiscalista e che i controlli del Fisco sono in media ogni due anni, sottolineando «che i rapporti sono sempre molto cordiali».
Anche Pedranzini riceve in media gli ispettori del Fisco ungherese ogni due, tre anni «ma quando entrano in azienda neppure ce ne accorgiamo», dice.
«Il rapporto con il Fisco è onesto – conferma Caracciolo – ma c'è una tolleranza minore rispetto all'Italia. Qui chi sgarra paga davvero anche con il carcere».

Le critiche del sindacato
Varosligeti fasor è la via che ospita la confederazione sindacale Maszsz, ad appena un chilometro dalla sede di Fidesz, il partito del primo ministro Orban. Il palazzo è una vecchia casa del popolo all'interno del quale ci sono ancora disegni e sculture che richiamo l'era del socialismo reale.
In Ungheria il sindacato raccoglie appena il 9,5% dei lavoratori, concentrati soprattutto nelle medie e grandi aziende e nelle multinazionali ma il 79% dei lavoratori è assunto nelle piccole e piccolissime imprese.
Da questo edificio Karoly Gyorgy, segretario internazionale della confederazione, espone le sue critiche alla politica di Orban. «Il primo ministro non è per il dialogo sociale – spiega Gyorgy nel suo ufficio – e il sistema che mette in pratica è l'antico motto latino “Divide e t impera”. Il Governo si presenta agli incontri con i programmi già fatti, senza ascoltare i sindacati».
Il giudizio del segretario sulla politica fiscale è a due facce. «La flat tax è ingiusta – afferma – perché privilegia le classi sociali più alte. Non è giusto che chi ha un reddito minimo paghi quanto quelli che guadagnano molto». In altre parole è un apprezzamento indiretto al sistema della progressività del prelievo fiscale. Meno scontato, invece, è il giudizio sulla flat tax per le imprese. «Il 9% è il risultato della competizione fiscale», dice Gyorgy, sorvolando sulle critiche della Commissione europea.
Dal suo osservatorio – in realtà il giudizio è condiviso dagli stessi imprenditori – Gyorgy lancia l'allarme sulla fuga dei cervelli dall'Ungheria. «Da noi mancano le figure di alto profilo – afferma – perché i redditi sono più bassi anche rispetto agli altri Paesi del gruppo di Visegrad». In Ungheria non esiste né tredicesima né trattamento di fine rapporto.
Nota dolente – questa volta non condivisa dagli imprenditori – è la legge che estende a 400 le ore di straordinario (in pratica 50 sabati su 52) che le imprese possono chiedere ai propri lavoratori (prima erano al massimo 300), con il pagamento differito fino a tre anni (rispetto ai precedenti quattro mesi). Contro questa legge sono scesi in piazza i sindacati e le ripercussioni più gravi dello sciopero sono state registrate presso lo stabilimento dell'Audi a Gyor, dove gli impianti sono rimasti fermi una settimana. La manovra è stata varata su pressione delle multinazionali, che sono arrivate in Ungheria ma che oggi si trovano a fare i conti con la carenza di manodopera, frutto della politica di Orban di chiusura dei confini all'immigrazione. «Lo straordinario non è un modo per risolvere i problemi della mancanza di personale - chiosa il sindacalista -, ci vogliono invece formazione e stipendi più elevati».

Come trattenere il personale
Le imprese, soprattutto quelle ad alto lavoro manuale, sono costrette ad ingegnarsi per trattenere non solo i migliori cervelli ma anche la manodopera formata. Fava sottolinea che del gruppo iniziale di operai di Tecnica Ungheria, dopo 10 anni, 200 sono ancora lì e lo scorso anno 160 persone sono state premiate, «a testimonianza che la fidelizzazione è alta e il personale è soddisfatto». Anche la presenza di un medico in azienda può servire per agevolare il welfare dei lavoratori. «In Ungheria non esistono i permessi di lavoro orari – spiega Fava – e dunque per non fare perdere una giornata, soprattutto a chi arriva da più lontano, un medico viene in sede una volta alla settimana. Abbiamo anche una mensa, il cui costo è sostenuto per il 90% dall'azienda e sviluppiamo continui corsi di formazione».

L’UNGHERIA IN CIFRE
(Fonte: Hipa.hu e Eurostat)

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