A quasi dieci anni dall’ultima visita ufficiale di un capo di Stato cinese (Hu Jintao), Xi Jinping sta per arrivare in Italia. L’interesse si focalizza soprattutto sulla firma di un Memorandum of Understanding (MoU) sulla Belt and Road Initiative (Bri). Ma si parlerà di molti temi, chissà, anche delle attività di formazione calcistica che nel suo intervento sul Corriere della sera Xi porta a esempio dei buoni rapporti bilaterali – non di tutto, dato che è improbabile che venga sollevato il tema dei diritti umani e della repressione degli Uiguri.
Tre speranze
L’economia cinese è cambiata, non è più il monolite pianificato del passato, ma nel Regno di mezzo la parola di un presidente
vale sicuramente molto. Per questo gli accordi commerciali che Xi firmerà a Roma sono importanti – danno un segnale alle imprese
cinesi che devono fare qualcosa per aumentare le importazioni dall’Italia e magari ridurre il deficit commerciale che, anno
dopo anno, non cessa di aumentare. In compenso, non è ovviamente possibile pensare che i dazi sui prodotti italiani diminuiscano
meno che per i concorrenti, e tanto meno che per gli altri paesi europei. Alla stessa stregua, se Xi si impegna a proteggere meglio gli interessi delle imprese italiane presenti in Cina, lo fa perché vuole rassicurare tutte le multinazionali, indipendentemente dalla nazionalità. Per il momento non è granché
convincente: la nuova legge sugli investimenti esteri, approvata venerdì scorso, è tanto ricca di principi astratti, quanto
povera di azioni concrete.
Portare Xi a Palermo è un risultato d'immagine notevole per la Sicilia, che ambisce a far crescere il suo appeal turistico. Anche se ci ha passato solo poche ore, Xi conosce già le isole italiane
– nel 2016 fece una breve tappa a Cagliari – e anche allora si sperava in un boom che non c'è stato. Il numero di visitatori
cinesi in Italia è in costante crescita (da 0,5% dei turisti stranieri nel 2000 a 2,4% nel 2017), ma sono pochi quelli che
si avventurano a Sud di Roma e in generale hanno il braccino un po' corto (secondo Banca d'Italia, spendono 116 euro al giorno,
meno della metà che i giapponesi). Nel Mezzogiorno la strada da percorrere è ancora tanta (mancano le strutture ricettive
adatte per il turismo asiatico, per non parlare dei campi da golf) e in ogni caso per il turismo gli influencers sono le giovani
star delle soap operas, più che gli attempati capi di Stato.
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Si mormora che il presidente avrebbe scelto il capoluogo siciliano per farsi un'idea anche del suo porto, per sviluppare un
hub per i commerci cino-africani alternativo al Pireo. Difficile crederlo – come ripete spesso Romano Prodi - la vera opportunità
l'Italia l'ha persa prima, quando i cinesi la Grecia manco la conoscevano e volevano insediarsi in Calabria, centro del Mediterraneo
… fino a quando scoprirono la ‘ndrangheta e lì anche il Partito comunista cinese dovette ammettere la sconfitta. Oggi come
oggi, sicuramente più chances di interessare l'industria marittima cinese hanno i porti dell'Alto Adriatico e Trieste in particolare, data la sua vicinanza alla Germania.
I timori
Vale la pena incrinare il coordinamento all'interno dell'Unione europea per firmare il primo MoU tra la Cina e una grande
democrazia occidentale del G20? Magari Xi, che della Bri resta l'orgoglioso padre, saprebbe ricompensare il governo italiano
con promesse d'investimenti. Ma le infrastrutture la cui costruzione la Bri intende promuovere hanno evidenti implicazioni
strategiche, per rendere la Cina il nodo centrale delle reti globali di produzione e interscambio, di beni come di servizi.
Va da sé che se la Cina sta al centro, l'Europa e l'Italia diventano periferiche.
Un rischio collegato è che alla Cina un MoU con un paese che, malgrado le tendenze suicide che ogni tanto lo invadono, resta
rilevante sulla scena internazionale, possa servire per dare legittimità al suo obiettivo di costruire un nuovo sistema di regole e istituzioni globali. Una è l'Asian Infrastructure Investment Bank, di cui l'Italia è membro e che potrebbe fare dei prestiti anche in Italia
(che pure, guardando la cartina, sembra abbastanza lontana dal Bosforo).
Un’altra sono i tribunali Bri, una recente invenzione che dovrebbe garantire che eventuali controversie si risolvano attraverso un dialogo amichevole tra le parti, al posto che nei tribunali arbitrali tradizionali. La politicizzazione delle relazioni economiche internazionale non può essere vantaggiosa per l'Italia, troppo piccola per resistere alle pressioni della Cina – ma anche della Russia e un giorno, nulla lo può escludere, degli Stati Uniti.
C’è infine la questione del debito, che si declina in almeno tre dimensioni. La Cina potrebbe diventare un grosso detentore dei nostri titoli e, chissà, esercitare questo potere per influenzare le scelte politiche italiane. Potrebbe anche prestare all'Italia per costruire nuove infrastrutture e, se fossimo impossibilitati a rimborsare il debito, prendere il controllo di porti (come del resto è già accaduto in Sri Lanka) o reti di distribuzione energetica – ma va detto che questo rischio è abbastanza ipotetico. Molto meno che ad indebitarsi troppo siano paesi in via di sviluppo, e allora al soccorso finanziario e magari al condono del debito sono chiamati i paesi occidentali.
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