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Dossier | N. 52 articoli L’Europa dopo il voto

Elezioni europee: cinque falsi miti fra populisti, migranti e Viktor Orbán

Le elezioni europee «contano solo sulla politica nazionale». Il voto di maggio sarà un «referendum sui migranti», l’emergenza che dominerebbe le ansie dei votanti. I risultati delle urne sveleranno ancora più a fondo la frattura fra Europa occidentale ed Europa dell’Est, tra l’asse franco-tedesco e il blocco di Visegrad capeggiato dal primo ministro ungherese Viktor Orbán.

È difficile seguire le cronache europee senza imbattersi in almeno una di queste analisi sul voto, in teoria capaci di descrivere quello che potrebbe verificarsi nell’arco di un mese su scala Ue. Ma se si trattasse di luoghi comuni, sganciati dai numeri disponibili finora? The European council of foreign relations (Ecfr), un think tank, ha provato a demistificare cinque «miti» che imperversano quando si parla di elezioni Ue. Eccone alcuni.

1) «Gli elettori stanno abbandonando i partiti tradizionali»

Una delle chiavi di lettura più frequenti è che il voto di maggio segnerà il tracollo dei cosiddetti partiti mainstream, le forze politiche che si possono raggruppare nell’arco che va dal centrosinistra al centrodestra. A farne le spese dovrebbero essere le due grandi famiglie politiche dell’Eurocamera, Popolari e Socialisti e democratici, colpite dal calo di consensi di alcuni dei suoi partiti fondamentali:dall’Unione cristiano-democratica tedesca (Popolari), al Partito democratico in Italia (Socialisti e democratici), passando per l’atteso tonfo del Partido populare spagnolo e altre sigle minori.

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Viceversa, il clima di incertezza dovrebbe spingere all’insù i consensi delle forze più o meno velatamente euroscettiche, dalla Lega di Matteo Salvini alla destra nazionalista di Alternativa per la Germania. Visto così, il trend sembra segnato. Ma i numeri rivelano uno scenario più prudente. L’Ecfr stima un totale di 97 milioni di elettori in bilico, sospesi prima di tutto fra la scelta di votare o meno e, in seconda battuta, fra il voto a partiti tradizionali o «anti-sistema». Ad esempio la già citata Cdu tedesca può contare su un bacino di appena l’8,6% di elettori fermamente decisi della propria scelta, ma a fronte di una quota di quasi il 20% di elettori «inclini a votare per quel partito, ma non ancora decisi» e un ulteriore 10% che potrebbe essere «persuadibile». La parola-chiave del voto sembra essere, semmai, volatilità: la partita sarà aperta fino al voto, sia sul fronte della partecipazione che su quello della distribuzione dei consensi.

2) «Le elezioni saranno un scontro fra europeisti ed euroscettici»

Un’altra tesi maggioritaria è che il voto di maggio sarà uno scontro frontale fra partiti pro e anti-Europa. Un argomento caldeggiato in un primo momento dalle stesse forze in causa: l’indagine Ecfr ricorda il caso del duello fra «l’europeismo di Macron» e le bordate euroscettiche del raggruppamento nazionale di Marine Le Pen. Ma lo stesso potrebbe dirsi, ad esempio, degli scontri fra Matteo Salvini e il centrosinistra italiano o le tensioni fra Bruxelles e il partito di Viktor Orbán Fidesz. Più si avvicina il voto, però, più gli impulsi euroscettici delle forze di destra (e sinistra) radicale finiscono per smussarsi, fino a negare l’intenzione stessa di divorziare o debolire radicalmente il progetto europeo.

Anche partiti come la stessa Lega si dicono ora decisi a cambiare la Ue «dall’interno», piuttosto che spingere per una sua dissoluzione. «Il loro obiettivo - si legge nel report - non è di apparire anti-Europei ma piuttosto di offrire una rifondazione dell’Europa: un’Europa che consenta ai paesi di resistere alla migrazione e rivendicare la sovranità dalle istituzioni europee». Il riposizionamento dipende da una questione di convenienza elettorale. Appena il 25% degli intervistati del report sostiene che l’identità europea sia meno rilevante di quella nazionale, lasciando intendere un trend più ampio: le perplessità sull’Unione europea come progetto politico non si traducono in un rifiuto complessivo della Ue, né tantomeno nel desiderio di fare marcia indietro rispetto all’appartenenza al progetto comunitario. L’ago della bilancia potrebbe essere, semmai, la percezione di un partito come forza di cambiamento rispetto allo status quo dell’Unione europea. Senza più considerare, davvero, la possibilità di smantellare la Ue.

3) «Il voto sarà un referendum sulle migrazioni»

L’argomento delle migrazioni ha tenuto banco per tutta la campagna elettorale, e sembra improbabile che l’attenzione cali proprio in vista del voto. L’esito è che il voto di maggio potrebbe essere interpretato come una specie di referendum sulla apertura o meno delle frontiere Ue, nonostante i numeri dei flussi siano calati bruscamente rispetto alla crisi migratoria del 2015. Ma siamo sicuri che il tema dei migranti sia davvero in cima alle preoccupazioni degli elettori? Il report evidenzia che le ansie dell’elettorato sono dominate da impellenze diverse. Anche in Italia, il paese che “vanta” la percezione più distorta sulla presenza di stranieri, l’argomento-migranti non riesce a primeggiare fra i timori dell’elettorato. Quasi il 30% degli intervistati dal report ritiene che la principale minaccia alla tenuta dell’Europa sia la crisi economica, aggravata negli ultimi mesi dalle tensioni commerciali che stanno logorando i rapporti fra Bruxelles e gli Stati Uniti di Donald Trump. Al secondo posto, poco sotto al 20%, compare la paura per «l’islamismo radicale». La questione migratoria si aggira tra il 10% e il 15%, poca sopra la paura per il ritorno dei nazionalismi. Da notare che un’ulteriore ricerca dell’Ecfr ha mostrato che gli italiani sembrano temere sì le migrazioni, ma sopratutto in uscita: il 32% è spaventato dalla fuga di nostri talenti all’estero, con uno scarto di sei punti percentuali rispetto a chi teme prioritariamente l’ingressodi stranieri (24%). Addirittura, il 52% degli intervistati sarebbe favorevole a un blocco legale degli espatri di lungo corso.

4) «L’Europa è spezzata fra ovest ed est»
Su un fronte «l’asse franco-tedesco» di Berlino e Parigi, Emmanuel Macron e Angela Merkel. Sull’altro il cosiddetto gruppo Visegrad, il blocco dei paesi dell’Est capeggiato dal primo ministro ungherese Viktor Orbán e attorniato da alcuni paesi amici, come l’Italia di Matteo Salvini. La chiave di lettura «geografica» del voto di maggio vuole che il Continente si stia spezzando soprattutto fra un’Europa occidentale liberal e un’Europa orientale sbilanciata verso rischi autoritari. In realtà, nota l’indagine Ecfr, è fin troppo semplicistico riassumere la geopolitica continentale in uno scontro frontale fra Ovest ed Est. La realtà è più eterogenea, anche perché considera i sentimenti degli elettori - e non solo dei governi che li rappresentano. Ad esempio, il 33% e il 32% dei cittadini delle «illiberali» Ungheria e Romania indica come principale valore aggiunto per l’Europa la protezione dei diritti civili, contro il 17% della Germania, il 15% della Francia e il 13% dei Paesi Bassi. In aggiunta, sempre nei paesi dell’Est, la corruzione non viene avvertita come il problema principale sulla propria agenda politica. In Slovacchia, il 37% degli intervistati ha indicato «corruption» come principale fonte di pericolo per il paese. Solo il 2% ha optato per i migranti.

5) «Le elezioni Europee sono solo nazionali»

Le elezioni europee, come insegna il caso italiano, vengono trattate spesso alla stregua di un test per la politica domestica. Nel voto 2019, invece, la dimensione comunitaria si sta accentuando anche nella percezione dell’elettorato. Paradossalmente, la sovraesposizione dei cosiddetti populisti aiuta a considerare il voto del 23-26 maggio per quello che è: la rielezione dei 751 membri di un parlamento Europeo, transazionale, e non un test per calibrare i rapporti di forza interni ai singoli paesi. Un esperimento politico come quello tentato da Salvini, con la suaAlleanza europea dei popoli e delle nazioni, mostra bene come anche i nazionalisti si stiano proiettando su una dimensione comunitaria. Con tutte le contraddizioni del caso.

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