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Akihito, il primo imperatore giapponese all’Opera. Con Verdi

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Oltre l’abdicazione

Akihito, il primo imperatore giapponese all’Opera. Con Verdi

EPA/KIMIMASA MAYAMA
EPA/KIMIMASA MAYAMA

Il primo imperatore giapponese ad abdicare da 202 anni è stato anche il primo ad andare a vedere un'opera lirica occidentale: il «Don Carlo» di Verdi. Accadde quasi dieci anni fa: lo fece per raggiungere il presidente Giorgio Napolitano al Bunka Kaikan di Tokyo, in occasione della sua visita ufficiale e della tournée del Teatro alla Scala. Con una ironia certo non voluta, arrivò poco prima che si aprisse il sipario sull'atto in cui Filippo di Spagna, solo e triste, con l’aria «Ella giammai m'amò» si abbandona a malinconiche considerazioni su quando sia duro fare il sovrano, tra ingenti oneri ma anche limiti ai suoi poteri.

Imperatore del popolo
«Tenno Heika”! Tenno Heika!», aveva esclamato sorpreso il pubblico giapponese in sala, all'arrivo di Sua Maestà l'Imperatore, prorompendo in un battimani. Peccato che prima della fine della serata Napolitano fu raggiunto dalla notizia del grave attentato ai nostri militari in Afghanistan, per il quale Akihito porse le sue condoglianze al rappresentante della Nazione italiana. La popolarità dell'imperatore dimissionario è legata indubbiamente al fatto che ci sono state tante “prime volte” nel modo in cui ha interpretato il suo ruolo costituzionale di simbolo dello Stato e dell'unità del popolo, attraverso un costante sforzo di proporsi come un imperatore “vicino al popolo” (ha usato spesso l'espressione “kokumin ni yorisou”) .

È stato il primo sovrano a utilizzare un linguaggio ordinario, comprensibile a ogni giapponese. Il primo a sposare una non-nobile, Michiko. Il primo a inginocchiarsi a terra, assieme alla consorte, per confortare le vittime di disastri naturali. Il primo a parlare in tv: certo in casi eccezionali, come dopo la tragedia dello tsunami o per annunciare l'inedita volontà di abdicare, citando i futuri impedimenti di una “ingravescente aetate”. Primo imperatore a recarsi in Cina e in alcuni luoghi delle battaglie della seconda guerra mondiale, dove ha pregato anche per i soldati americani morti. Primo a evocare affinità con la Corea, un tabù per i più conservatori.

Imperatore liberal
Nei limiti costituzionali, in atti, scelta di frasi e persino linguaggio non verbale Akihito ha dimostrato di essere un forte sostenitore della Costituzione pacifista del Paese e di volere un Giappone aperto al mondo, pronto a riconciliarsi con i vicini e a continuare a essere in prima fila come promotore di pace. Nei discorsi di quest'anno ha indicato con emozione il suo compiacimento perché nella sua era (Heisei) la pace è stata mantenuta, e ha indicato di sperare che gli stranieri possano integrarsi nella società giapponese. Logico che un imperatore così non si sia mai recato al Tempio Yasukuni, simbolo del nazionalismo giapponese, odiato dai vicini coreani e cinesi. E pazienza che il sacerdote-capo di quel tempio, prima di dimettersi, abbia dato in escandescenze (per gli standard giapponesi) criticando il “papa” della sua religione per non averlo fatto. Un imperatore sottilmente più “liberal”, insomma, rispetto a un governo Abe che ha mostrato di inclinare a un certo nazionalismo, per quanto costretto dallo spavento per l'ascesa della Cina a rafforzare legami con gli Usa che hanno aspetti persistenti di subordinazione.

GUARDA IL VIDEO: «Profondo rimorso» dell’Imperatore per la guerra

La dimostrazione più plastica delle differenze di vedute tra il premier e l'imperatore si ebbe nel 2015, in occasione del 70esimo anniversario della fine della guerra: Abe attribuì la presente prosperità del Paese al sacrificio dei soldati morti in guerra, ma Akihito –il giorno dopo, nel suo tradizionale discorso del 15 agosto alla Nippon Budokan – attribuì la prosperità del presente ai duri sacrifici fatti nel dopoguerra dal popolo giapponese, nel costante anelito verso la pace e lo sviluppo pacifico. Dopotutto, se i soldati che morirono in nome di suo padre Hirohito avessero prevalso, difficilmente ci sarebbe stata grande prosperità nello stesso Giappone, visto che la casta militarista - considerando il popolo al suo servizio e non viceversa - avrebbe sempre sacrificato il benessere civile ai suoi sogni di un dominio sempre più vasto. È più che verosimile che suo figlio Naruhito si ponga su una stessa linea di modernizzazione dell'istituzione imperiale e di sentimenti internazionalisti, tanto più che sarà il primo imperatore ad aver passato anni all'estero; inoltre ha pure fatto quello che pochi uomini giapponesi fanno, ossia sposare una donna di statura più alta oltre che di pari intelligenza.

In viaggio con l’imperatore
Akihito ha visitato 28 Paesi da imperatore e 30 da principe ereditario. L'ultimo è stato in Vietnam nel marzo 2017. Il Sole-24 ore fu l'unico media straniero a seguirlo: mi permetto di citare qualche breve aneddoto. Tra 126 giornalisti giapponesi, l'unico straniero è oggetto di una curiosità zoologica. Si sale sull'aereo di Stato senza aver pagato il biglietto: il conto arriva un mese e mezzo dopo. Ma prima occorre sottoporsi a due estenuanti briefing, di tre ore ciascuno, per poi navigare sulle oltre 200 pagine di istruzioni dettagliatissime in ideogrammi, che non comprendono però il divieto fondamentale: quello di fare domande spot all'imperatore (quello è scontato e si suppone, evidentemente, che i corrispondenti stranieri sappiano che l'ignoranza di atti equivalenti a una sorta di lesa maestà non scusa, come nella legge penale). Non solo: il giorno prima della partenza ci si reca al palazzo imperiale ad augurare all'imperatore buon viaggio e felice ritorno. Nella sala Shakkyo, dopo saluti formali e profondi inchini reciproci, a sorpresa si apre un momento del tutto informale, con l'ingresso di camerieri a portare caffè, te e biscottini da consumare in piedi, imperatore compreso, al quale ci si può liberamente avvicinare e parlare. «Buongiorno imperatore, come sta?», dissi con impertinenza in italiano (ricordando che la stessa frase era stata usata all’arrivo al Palazzo imperiale dal presidente Napolitano nel salutare l’imperatore). Ci fu, credo, un momento di suo stupore, prima che mi presentassi in giapponese e lui mi rivolgesse la domanda che tutti i giapponesi fanno agli stranieri: «Da quanto tempo vive in Giappone?». Dopo pochi convenevoli mi ritirai con un inchino e una frase di circostanza, visto che ero attorniato da politici del governo e della Dieta.

Akihito è un sovrano che non ispira soggezione: spesso le sue fattezze sembrano rivelare un lieve filo di ironia che lo rende simpatico, mentre la consorte Michiko, anche in abiti occidentali, sembra uscita dall'epoca Heian. In Vietnam in varie circostanze –dal museo in cui Akihito ritrovò il pesciolino (white goblin fish) da lui donato nel 1976 dopo aver scoperto nei suoi studi che si trattava di una nuova specie, all'università – mi ritrovai più volte a un passo da lui, mordendomi le labbra per la necessità di non fare gaffe sotto gli sguardi occhiuti dei funzionari del Kunaisho, l'Agenzia imperiale. Ma, come straniero, non rispettai tutte le regole: non violandole ma aggirandole, riuscendo ad esempio a prendere immagini e video dalla strada, come facevano gli spettatori, anche se mi avevano accettato solo come “pen journalist”. Commoventi gli incontri della coppia imperiali con le “vedove bianche” vietnamite, che avevano sposato soldati giapponesi rimasti a combattere per i Vietcong e poi espulsi (senza poter portare in Giappone la nuova famiglia). Grande, poi, il riferimento fatto da Akihito alle lontani origini in Vietnam persino di una delle più tradizionali arti giapponesi, il «gagaku».

Indirettamente legato all'imperatore fu anche l'articolo con cui Il Sole-24 Ore rivelò con un mese di anticipo che il premier Abe contava di portare i leader del G7 a visitare il tempio di Ise: non un tempio qualsiasi ma il sacrario della famiglia imperiale, come tale considerato il simbolo dell'unicità (e divinità) della nazione giapponese. Il governo, per evitare polemiche di carattere politico-costituzionale, lo annunciò solo tre giorni prima del summit, etichettando il tutto come “visita culturale”. Solo allora la stampa “liberal” giapponese allegò riserve, che però annegarono presto nelle notizie sul vertice. Chissà se Akihito, in cuor suo, approvò: forse sì, ma solo come segno di riconciliazione. Con sentimenti un po' diversi, si può immaginare, Shinzo Abe deve aver poi riferito ai suoi antenati di essere riuscito a portare al tempio di Ise nientemeno che il presidente degli Stati Uniti e il premier britannico.

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