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Dossier | N. 52 articoli L’Europa dopo il voto

L’Europa e il tech, così Bruxelles indica la via agli Usa su privacy e concorrenza

Non succede così di frequente che l’Economist, pilastro liberal dei settimanali anglosassoni, elogi l’Europa e soprattutto la Ue. Gli ultimi strappi alla regola nascono dallo stesso motivo: la capacità di Bruxelles di fissare qualche paletto allo strapotere delle multinazionali del tech statunitensi, a partire da pesi massimi come Google, Facebook e Apple.

Fra le principali eredità dell’ultima legislatura europea (2014-2019) c’è quella di aver creato le basi di un quadro normativo pionieristico per l’economia del Web. Una conquista che segna la differenza europea rispetto ai due concorrenti incalzano la Ue, Stati Uniti e Cina, tra l’altro nel vivo delle loro tensioni sul caso Huawei e la scelta di Google di sospendere la licenza di Android al colosso cinese.

Sullo sfondo c’è il disegno di un Digital single market, il progetto di un mercato unico digitale annunciato dalla Commissione europea nel 2015 e incardinato sui tre pilastri di accesso (migliorare disponibilità e fruizione di beni digitali), ambiente (creare un contesto favorevole all a nascita di business online) ed economia (potenziare la crescita dell’economia digitale). L’obiettivo di lungo termine è generare un ritorno da 415 miliardi di euro l’anno, capitalizzando l’evoluzione digitale della Ue. Nell’attesa Bruxelles ha anche messo sotto chiave risultati che permettono di vantare qualche precedente storico nella regolamentazione dei colossi tecnologici, ribadendo il primato di concorrenza e privacy dei cittadini Ue sul «far west» dell’economia digitale.

Le conquiste Ue, dal roaming al Gdpr
Se si parla solo del mercato unico digitale, il quinquennio in scadenza ha registrato dei passi in avanti verso lo sviluppo di una zona di scambio che riproduca sul Web l’assenza di barriere raggiunta su quello fisico. Tra il 2014 e il 2019 sono arrivati la fine delle tariffe sul roaming (i sovraprezzi per l’utilizzo del proprio cellulare all’estero, aboliti definitivamente il 15 giugno 2017), un impianto legislativo ad hoc per la protezione dei dati dei cittadini (il general data protection regulation, il regolamento approvato nel 2016 e diventato applicativo dallo scorso 25 maggio) e la rimozione del geo-blocking: l'insieme di barriere e restrizioni imposte dai venditori online ai clienti che vivono o decidono di fare acquisti all’estero, in precedenza penalizzati da filtri e rincari a seconda della nazionalità. Senza dimenticare la cosiddetta riforma del copyright, una direttiva sul diritto d’autore che dovrebbe imporre ai colossi digitali come Google o YouTube di remunerare i contenuti veicolati dai propri algoritmi. L’incidenza della Ue nella nostra vita digitale, però, si è fatta sentire anche per via indiretta, con la sequela di multe e inchieste che ha costretto i giganti statunitensi ad adattarsi (o, almeno, confrontarsi) con le regole europee. Un fronte aperto fra Bruxelles e gli Stati Uniti che si identifica soprattutto con l’operato di Margrethe Vestager, la commissaria alla concorrenza che si è trasformata in una spina nel fianco per i grandi gruppi tecnologici al di là dell’Atlantico.

Alphabet, la holding californiana di Google, ha subìto in due anni l’equivalente di 8,2 miliardi di euro di sanzioniper tre casi diversi: 2,42 miliardi di euro per aver favorito il proprio servizio di acquisti online Google Shopping , 4,34 miliardi per abuso di posizione dominante del suo sistema operativo Android e, infine, altri 1,49 miliardi di euro per abuso di posizione dominante, in questo caso con l’accusa di aver limitato le inserzioni pubblicitarie dei concorrenti. Il gigante della telefonia Apple è stato condannato nel 2016 a pagare l’equivalente di 13 miliardi di euro di tasse arretrate al fisco irlandese, “congelate” fra 2003 e 2014 grazie a un accordo con Dublino che le consentiva di scontare un’aliquota irrisoria per la tassa sul reddito di impresa (0,005%, contro il già basso 12,5%). Il gruppo dell’e-commerce Amazon ha dovuto sborsare 250 milioni di euro per un’intesa simile con il Lussemburgo, Facebook ha pagato 110 milioni per aver fornito informazioni «depistanti» sulla sua acquisizione del sistema di messaggistica Whatsapp e il gigante dei processori Qualcomm ha sfiorato una multa da un miliardo ( 997 milioni) sempre per abuso di posizione dominante. Anche senza passare all’incasso, Bruxelles è riuscita a incalzare le Big tech rispetto ai propri obblighi di trasparenza e protezione della privacy. Nell’aprile 2018, il patron di Facebook Mark Zuckerberg è stato chiamato a testimoniare di fronte all’Europarlamento per lo scandalo di Cambridge Analytica, la cessione di dati privati a un’azienda di marketing elettorale ingaggiata dal futuro presidente Usa Donald Trump. Nell’ottobre 2018, proprio sulla scia del datagate di Facebook, la Commissione ha esortato i grossi gruppi tech a garantire un grado elevato di sorveglianza rispetto alla proliferazione di fake news sui propri canali online.

Limiti e virtù dell’azione europea
Naturalmente le vittorie della Ue sono state accolte anche come delle sconfitte, e non solo dai colossi tech urtati di volta in volta dalle indagini. I critici del «paradigma europeo» fanno notare che regole hanno lasciato trasparire alcune fragilità di principio e di applicazione. Il Gdpr, con il suo impianto di maxi-sanzioni per chi viola la privacy, è stato digerito rapidamente dai colossi tech già attrezzati con i propri studi legali, creando semmai più confusione fra le aziende di piccola e media dimensione. La direttiva sul copyright viene accusata di reprimere la libertà di condivisione in rete, con l’effetto-boomerang di incentivare le grosse piattaforme digitali a rinunciare del tutto alla condivisione di contenuti. L’Irlanda ha fatto appello contro lo stesso maxi-rimborso di Apple, rinfacciando alla Ue una «interferenza indebita» rispetto a una strategia fiscale rodata: attrarre colossi del tech con una tassazione più che agevolata, la chiave della sua improvvisa attrattività verso giganti di Ict e farmaceutica. Senza contare le polemiche che ruotano intorno alla figura di Margrethe Vestager, contestata per il suo «protagonismo» in una battaglia che l’ha resa forse il volto più noto della Commissione dopo il presidente Jean-Claude Juncker. Tra i suoi critici c’è chi fa notare l’inefficacia di multare colossi che in un anno fatturano, mediamente, 20 o 30 volte l’importo inflitto da Bruxelles: Alphabet, la holding che controlla Google, ha annunciato ricorsi contro l’ammenda da 4,3 miliardi di euro del 2018, ma la cifra corrisponde a circa un trentesimo dei 126 miliardi di euro (142 miliardi di dollari) di ricavi nell’anno fiscale che si è chiuso il 31 marzo 2019.

Più in generale, Stati Uniti ed Europa sono divisi da un’interpretazione diversa sui confini dell’«abuso di posizione dominante». Negli Usa, la presenza di un gruppo dominante viene vista come un incentivo alla concorrenza. In Europa, e si è visto, come una violazione in termini del principio di concorrenza. Eppure, in questo caso, sembrano essere i «burocrati di Bruxelles» a dettare la linea su come arginare l’enorme potere mediatico, politico e finanziario finito sotto le mani dei nuovi tycoon del digitale. La direttiva sul copyright, citata sopra, obbliga (o cerca di obbligare) le piattaforme online a responsabilizzarsi sulla diffusione dei contenuti che ne hanno contribuito alla fortuna. E fa un certo effetto che Chris Hughes, il cofondatore di Facebook, abbia scritto un editoriale sul New York Times per invocare uno «smembramento» della piattaforma, muovendo al suo ex (?) amico Zuckerberg critiche simili a quelle che gli erano state addossate durante il torchio di Bruxelles sullo scandalo datagate. Dopo aver importato l’innovazione statunitense e le sue regole, l’Europa esporta un modello giuridico sconosciuto ai «pionieri» della Silicon Valley. «Le ultime direttive europee sono interessanti perché segnano una discontinuità del diritto europeo rispetto al modello americano - spiega Alessandro Cogo, professore al dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino - L’Europa ha sempre avuto un approccio diverso sul tema della protezione dei dati, ma anche su altri ambiti si è creata una divaricazione: mentre il diritto statunitense è rimasto fermo agli anni ’2000, quello Ue si è mosso in avanti». Per il futuro immediato, aggiunge Cogo, la prima sfida sul tavolo sarà quella di disciplinare l’intelligenza artificiale e il suo impatto sulla società. Per fare un esempio concreto, a chi addossare la responsabilità di un self-driving cars che provoca danni a terzi? «C’è tutto il tema della responsabilità di prodotto, che avrebbe dovuto essere inclusa in una direttiva poi rimasta in sospeso - dice Cogo - Ora la palla passa alla prossima legislatura». 

Le sfide sul tavolo da qui al 2024
Diritto a parte, la Ue deve ancora lavorare su diversi fronti per ultimare il processo di un «mercato unico digitale» in coerenza con i progetti originari. La Commissione indica almeno tre priorità: assicurarsi che le piattaforme online producano benefici e non danni alle società Ue; sviluppare una «economia dei dati europea» dai numeri ambiziosi, per un valore stimato di 739 miliardi di euro al 2020, potenziando segmenti come intelligenza artificiale, digitalizzazione dell’industria e computer super-veloci; proteggere ulteriormente la privacy dalle insidie esterne. Un obiettivo che passerà nella mani della Ue nella legislatura 2019-2024, insieme agli altri fronti che inquietano la tenuta dell’Europa digitale (e non solo). Prima ancora e durante il voto, la Ue verificherà la sua capacità di difendersi dalla proliferazione di fake news accusate di aver inquinato gli esiti elettorali di appuntamenti come il referendum sulla Brexit e le elezioni americane del 2016.

Nell’agenda successiva al 23-26 maggio spuntano invece, per fare qualche esempio, l’incremento degli investimenti in innovazione, il recepimento della direttiva sul copyright in paesi riottosi (come l’Italia), i timori sulle ingerenze della Cina con la “scusa” delle reti 5G, la necessità di riqualificare milioni di lavoratori europei che rischiano di essere spiazzati dall’automazione. «L’Europa digitale si sviluppa con obiettivi concreti - spiega Cecilia Bonefeld-Dahl, direttore generale del think-tank di Bruxelles Digital Europe - Il che significa fornire più formazione Ict ai cittadini, visto che solo un’impresa su quattro lo fa, e portare gli investimenti in innovazione e digitale ad almeno il 10% del budget europeo per agganciare Giappone e Stati Uniti». In prospettiva resta il sogno, frustrato, di una «web tax» che obblighi i grandi gruppi del digitale a pagare gli erari Ue per i ricavi generati in Europa e puntualmente sottratti al fisco con artifici contabili o accordi bilaterali. Un problema, come sa bene il commissario agli Affari monetari Pierre Moscovici, che dipende da una incompiuta dell’unione: l’armonizzazione fiscale, il livellamento delle aliquote che ridurrebbe la concorrenza al ribasso fra paesi sul regime più vantaggioso. Ma questa è un’altra, lunga, storia.

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