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Questo articolo è stato pubblicato il 12 settembre 2014 alle ore 11:35.
L'ultima modifica è del 12 settembre 2014 alle ore 12:40.

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L''acquisto di un un computer da parte di un privato non comporta anche l'obbligo di utilizzo del software preinstallato. Non solo, il consumatore ha il diritto di ottenere il rimborso per la sola parte del prezzo relativa alla «licenza d'uso» del programma informatico non negoziato con il venditore.
Con la sentenza 19161/14, depositata ieri, la Terza civile della Cassazione interviene sulle politiche commerciali di vendita abbinata hardware/software, affermando la libertà dell'acquirente di installare i programmi senza essere vincolato – né gravato di costi indebiti – dal produttore della macchina.

La questione, per quanto di scarso impatto economico (i tre gradi di processo vertono sulla restituzione di 140 euro di prezzo "indebito") è rilevante dal punto di vista civilistico e sull'interpretazione della volontà negoziale delle parti coinvolte.
A rivolgersi al tribunale di Firenze era stato un privato che aveva comprato un portatile Hp, vedendosi poi costretto ad attivare la licenza d'uso del pacchetto Microsoft. Alla sua richiesta di retrocessione del prezzo relativo, si era visto opporre dal venditore le condizioni contrattuali, dove si evidenziava la facoltà di rimborso ma derivante solo dalla restituzione di macchina più software.

Secondo la Corte, invece, l'oggetto del contratto di vendita non è altro, e non può essere altro, che il notebook acquistato dal consumatore, unico bene sul quale si incrociano – e pertanto si perfezionano – le volontà negoziali. La soluzione è pacifica anche alla luce del regolamento contrattuale predisposto dal produttore stesso, dove a fronte della compravendita dell'hardware si accompagna la sottoscrizione di una semplice (per quanto obbligatoria) «licenza d'uso» dei programmi preinstallati.

A giudizio della corte di merito, giudizio avallato poi dalla stessa Cassazione, ci sono «due distinte vicende negoziali: quella relativa al computer (...) e quella relativa al programma informatico ivi preinstallato». Hardware e software, quindi, «sono due beni distinti e strutturalmente scindibili, oggetto di due diverse tipologie negoziali». E, chiosa il tribunale, solo sulla prima vicenda si è formato regolarmente il consenso finalizzando il contratto, mentre nessun rapporto intercorre, né è intercorso, tra il produttore di software e l'acquirente del notebook. Invece, si tratta qui di «licenze economiche e licenze di vendita che vengono trattate, a monte della grande distribuzione, in forza di accordi commerciali su vasta scala, direttamente stipulati tra la casa produttrice del sottware e le principali case produttrici dell'hardware». Un asse, in sostanza, che non prevede la "consultazione" – e cioè la libertà di scelta contrattuale – del consumatore. Consumatore che, nell'interpretazione della Corte, è mosso all'acquisto dalle caratteristiche tecniche dell'hardware, dato «che trova anche riscontro obiettivo nella assoluta preponderanza del valore economico di quest'ultimo nella formazione del prezzo finale di mercato del "bene informatico" genericamente inteso».

In definitiva, scrive la Terza, la tesi del «simul stabunt simul cadent» (cioè dell'unitarietà del contratto hardware/software) non trova fondamento, «non sussistendo adeguati elementi volti a dimostrare che i due contratti in oggetto siano stati voluti dalle parti nell'ambito di una combinazione strumentale volta a realizzare uno scopo pratico unitario».

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