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Questo articolo è stato pubblicato il 23 ottobre 2014 alle ore 07:51.
L'ultima modifica è del 23 ottobre 2014 alle ore 09:19.

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Il genitore separato che provoca lo “sbilanciamento” della prole in favore suo e a danno dell'altro genitore può essere condannato d'ufficio all'ammonizione ed alla sanzione amministrativa in favore della Cassa per le ammende prevista dall'articolo 709-ter del Codice di procedura civile.

Non importa che questa condanna non sia stata chiesta dalla controparte, perché l'interesse superiore da tutelare è quello dei figli alla bigenitorialità. Lo ha deciso il Tribunale di Roma, Sezione prima (Famiglia), con sentenza del 27 giugno 2014, del giudice Donatella Galterio.
La pronuncia riguarda il caso di una madre che ha ripetutamente messo in cattiva luce il padre agli occhi della figlia. Vi si stigmatizza la dannosità di ogni comportamentalità genitoriale che “arruoli” un figlio minore nella guerra contro l'altro genitore e si supera la diatriba psicologica e giuridica su inquadramento e riconoscimento dell'alienazione genitoriale.
Esaminando la relazione del suo consulente psicologo, il giudice considera lo “sbilanciamento” del minore a favore dell'area materna (o paterna) come prova della teoria dell'arruolamento, che in sintesi consiste nella spinta negativa che le parole del genitore sbilanciante hanno sulla percezione dell'altra figura genitoriale, da parte del figlio comune. La relazione diagnostica difficoltà della figlia nelle relazioni col padre e le attribuisce al suo avvenuto “arruolamento” da parte della madre nella “guerra” contro il padre.

Per risolvere il problema, il giudice sceglie una strada più radicale rispetto a quella suggerita dalla relazione del Ctu: reputa insufficiente un percorso di sostegno alla genitorialità (già intrapreso in precedenza) e, in linea con la più attenta psicologia forense, rileva che occorre invece analizzare il fallimento di tale percorso.
Le risultanze processuali portano infatti a rilevare come, nel caso specifico, proprio la madre abbia un minore interesse a sottoporsi ad un qualunque percorso di mediazione, «ove si consideri che l'operazione di triangolazione da costei posta in essere, nei confronti della figlia, è stata già realizzata, avendo sostanzialmente la minore finito di introiettare, ritenendolo proprio, il punto di vista materno nei confronti della figura paterna».
Da ciò discende chiaramente il seguente principio di diritto cui uniformarsi: ogniqualvolta un genitore rilevi che sia stata introiettata dal minore una visione ostile dell'altro genitore, ha l'obbligo di «attivarsi al fine di consentire il giusto recupero da parte della figlia del ruolo paterno, (ruolo) che, nella tutela della bigenitorialità cui è improntato lo stesso affido condiviso, postula il necessario superamento delle mutilazioni affettive del minore, da parte del genitore per costei maggiormente referenziante».

Vi è quindi un preciso obbligo, non una mera facoltà, di spingere il figlio verso il genitore in danno del quale sia avvenuto lo sbilanciamento. Ciò si ottiene non solo non perseverando nel portare avanti iniziative diverse da quelle del genitore sfavorito, ma anche recuperando la positività della sua figura, «nel rispetto delle decisioni da costui assunte e comunque delle sue caratteristiche temperamentali».
Nel caso in questione, ciò non è accaduto e c'è stata una condotta «volta ad ostacolare il funzionamento dell'affido condiviso». Visto ciò e posta la più volte affermata «applicabilità d'ufficio del meccanismo sanzionatorio previsto dall'art. 709-ter cpc», il giudice ha applicato la misura dell'ammonizione, «invitando la parte ad una condotta improntata al rispetto del ruolo genitoriale dell'ex coniuge», e l'ammenda, «al fine di dissuaderla in forma concreta dalla protrazione delle condotte poste in essere, la cui persistenza potrà peraltro in futuro dare adito a sanzioni ancor più gravi compresa la revisione delle condizioni dell'affido».

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