Norme & Tributi

La strategia fiscale delle multinazionali

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Ue-Irlanda/Apple

La strategia fiscale delle multinazionali

Pianificazione fiscale aggressiva, accordi con lo Stato ospitante, triangolazioni multiple con “quasi” paradisi e poi con veri e propri atolli “no tax”.
La strategia fiscale delle multinazionali - e non solo quelle hi-tech, oggi nel mirino dell'opinione pubblica e del regolatore europeo - viaggia su vari livelli e sempre con un comune denominatore: infilarsi nelle maglie delle leggi statali, spesso larghe, e delle norme internazionali (fino a pochi mesi fa debolissime) per abbattere il costo fiscale del gruppo e massimizzare così i profitti.

Il contenzioso Ue vs Irlanda/Apple è una cartina tornasole straordinaria per leggere dall'alto la parabola degli ultimi 25 anni e studiare una delle strategie “vincenti”. Si sceglie uno stato a fiscalità attrattiva (l'Irlanda), lo si erige a unico centro dei propri interessi in Europa (così da escludere le pretese del fisco di altri paesi dove si opera ufficialmente senza «stabile organizzazione») e contemporaneamente si tratta con lo stato ospitante (tax ruling) per abbattere di comune accordo l'imponibile a quasi zero . I numeri del caso Apple/Europa sono emblematici: 22 miliardi di dollari di imponibile in 16 anni di dorata partnership, ridotti a 50 grazie all'agreement, 10 in tutto di tasse incamerate pari allo 0,05%.

Sia chiaro, questo è solo uno dei possibili schemi elusivi costruiti da team di fiscalisti e consulenti aziendali molto abili a non violare le leggi (quantomeno quelle dell'epoca) producendo comunque un risultato aberrante sotto vari profili, a cominciare da quello etico. Le inchieste della Procura di Milano degli ultimi anni hanno svelato però che, in questo campo, il fine miliardario del risparmio di imposta aguzza l'ingegno. Il caso Google, per esempio, sfrutta il profit shifting applicando la geometria euclidea, estremi del triangolo Irlanda, Olanda e Bermuda. La divisione irlandese, sospettano i pm, emette fatture nei confronti di clienti italiani per inserzioni pubblicitarie per 1,2 miliardi (così “dimostrando”, per neutralizzare le pretese delle Entrate, che non esiste una organizzazione italiana), quindi la stessa Google irlandese abbatte la metà dei proventi pagando royalties alla holding olandese del gruppo (una scatola vuota secondo la Procura) poi subito riversate alla holding irlandese che però ha residenza fiscale alle Bermuda.

L'anomalia di queste pratiche fiscali aggressive nel frattempo è però finita nel mirino del legislatore europeo, che lo scorso luglio ha adottato nuove norme antielusione da recepire nell'area dei 27 entro il 31 dicembre del 2018 . Il primo punto vieta lo spostamento dei debiti in giurisdizioni dove vigono norme più “generose” di deducibilità, obiettivo scoraggiare la pratica di delocalizzazione del debito, limitando l'importo annuale degli interessi che il contribuente è autorizzato a dedurre. Ancora, verrà istituzionalizzata la «imposizione in uscita», una tassa per i gruppi che decidono di trasferirsi (o di trasferire semplicemente i profitti) in uno stato a fiscalità più “comprensiva”. Terzo step, le Cfc, le società controllate estere, veicolo frequente per drenare utili in giurisdizioni a bassa fiscalità.

Questa manovra prevede che il fisco del paese “leso” possa riattribuire i redditi scaricati sulla Cfc alla società madre, annullando il beneficio fiscale ottenuto mediante il veicolo transnazionale.

Il quarto punto della direttiva tocca il capitolo delle doppie deduzioni, che verranno impedite con una norma ad hoc sui cosidetti disallineamenti da ibridi: lo scopo è impedire di scegliere la normativa più conveniente tra quelle dove è operativo il gruppo.

Infine, il quinto settore di intervento delle nuove norme antiabuso è la clausola generale mirata a chiudere i buchi che possono esistere nelle norme dei vari paesi membri. La direttiva risolve anche il disallineamento tra i paesi dell'area comunitaria, sei dei quali non fanno neppure parte dell'Ocse. A proposito di Europa, appunto.

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