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Questo articolo è stato pubblicato il 09 luglio 2014 alle ore 06:52.
L'ultima modifica è del 09 luglio 2014 alle ore 08:09.

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Le dimissioni del presidente dell'Emilia Romagna, Vasco Errani, dopo la condanna in appello a un anno per falso ideologico, rappresentano un evento politico tutt'altro che secondario. Il personaggio ha avuto un ruolo di primo piano nella storia del post-comunismo italiano. Per quindici anni al vertice della regione "rossa" per eccellenza, a lungo presidente della conferenza Stato-Regioni, un rango elevato nel suo partito, amico di Bersani ma rispettato e stimato dai "renziani": il ritratto di Errani è ben descritto da questi particolari e altri se ne potrebbero aggiungere.
La condanna in appello nel processo "Terremerse" è giunta dopo un'assoluzione in primo grado e ha lasciato il segno nel Partito Democratico. Intorno ad Errani si è creato subito un cordone di solidarietà, gli attestati di stima si sono moltiplicati. La segreteria del Pd gli ha chiesto "pro forma" di ritirare le dimissioni, peraltro date di slancio dall'interessato subito dopo aver avuto notizia della sentenza giudiziaria.
E qui naturalmente sono affiorate le polemiche. Come mai, si è domandato qualcuno, questo grande abbraccio a Errani quando invece il sindaco di Venezia, Orsoni, è stato abbandonato al suo destino appena poche settimane fa? Perché il "garantismo" a intermittenza? Ma la questione è mal posta e il parallelo non regge. Essere garantisti, soprattutto nel Pd, non significa essere ciechi o incapaci di distinguere le situazioni sul piano giudiziario e politico. Errani è un pezzo della storia vivente del Pd, così come ha preso forma in anni travagliati. Quale presidente dell'Emilia Romagna ha tutelato grandi e compositi interessi, ma sulla sua onestà personale in tanti sono disposti a giurare, amici e meno amici.

La vicenda di Orsoni è tutt'altra e rinvia alla storia oscura del Mose. Inoltre l'ex sindaco di Venezia tentò di restare in carica dopo il patteggiamento, lanciando obliqui segnali a chi era in grado di intenderli. Errani, viceversa, ha avuto l'intelligenza di lasciare la sua carica senza esitazioni, pur proclamando la propria innocenza. A Bologna, dopo tre lustri di governo, la sua parabola era comunque conclusa e ora il ricorso in Cassazione servirà a restituirgli l'onore (e con esso magari un nuovo incarico) oppure a consegnarlo all'oblìo politico.
In ogni caso fra Errani e Orsoni il paragone non è possibile e chi si sorprende per il diverso trattamento riservato dal Pd ai due amministratori dimostra di non avere il senso delle proporzioni. Piaccia o no, il garantismo è sempre legato alle circostanze, al peso dei personaggi in questione, alle loro storie politiche e umane.
Di fatto però l'uscita di scena di Errani, pur con l'onore delle armi, segna una nuova svolta nel Pd. Il partito dei "quadri" e del potere locale, il partito che per decenni è stato la spina dorsale del Pci, poi Pds, Ds e ora Pd subisce un altro "shock". Dopo la sconfitta elettorale a Livorno e in altre storiche località, la coperta tradizionale diventa sempre più corta. La condanna penale c'entra fino a un certo punto, benché in passato forse non ci sarebbe stata. Ma l'incidente giudiziario, in fondo minore, è sovrastato dal lento smottamento politico. Si capisce che il centrosinistra sta cambiando fisionomia e la nuova fase appartiene ad altri protagonisti. Il "renzismo" va di corsa e magari finirà per deragliare, ma lo farà con un diverso stile e soprattutto altri volti.

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