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Questo articolo è stato pubblicato il 30 luglio 2014 alle ore 08:37.
L'ultima modifica è del 30 luglio 2014 alle ore 08:38.

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C'é da domandarsi quale sia il vero obiettivo della surreale situazione che si vive a Palazzo Madama. Un giorno (lunedì) sembra che il premier cerchi la mediazione con gli oppositori espliciti e impliciti della sua riforma. Il giorno dopo, cioé ieri, lo scenario cambia repentinamente e si torna all'estenuante braccio di ferro. In sintesi, urla, insulti e improperi. La seduta sospesa e poi ripresa in un clima da Far West.

Ostruzionismo, certo. I Cinque Stelle e Sel (i senatori di Vendola) ben intenzionati a non scendere dal palcoscenico mediatico. Ma c'è anche un'ambiguità di fondo che lascia dubbiosi.
La logica politica avrebbe voluto che si tentasse di separare gli ostruzionisti veri e propri da quanti pongono invece questioni di merito. Questioni non tutte ricevibili dalla maggioranza, certo, ma alcune sì. In fondo era questo il punto evocato dal premier con la sua iniziativa di rivolgersi l'altro giorno ai senatori, toccando anche il tasto dolente ma cruciale della riforma elettorale. Riforma che non si discute ora, ma che occupa il retropensiero di molti parlamentari e attende di essere corretta molto a fondo. Come peraltro sollecitato anche dal presidente della Repubblica.
Il frutto visibile delle aperture di Palazzo Chigi era stato il tentativo di mediazione affidato a Vannino Chiti, il leader – diciamo così – dei "frondisti" del Pd. Ma un frondista che non ha alcuna intenzione di danneggiare il suo partito e tanto meno di vanificare il buon esito della riforma: vuole solo migliorarla, secondo il suo punto di vista. Ebbene Chiti si è assunto l'onere di trattare con i rappresentanti di Sel nella speranza di ottenere il ritiro della maggior parte degli emendamenti.

Tuttavia una mediazione, per essere efficace, comporta un «do ut des». E qui qualcosa è andato storto, non si capisce bene per colpa di chi. Sta di fatto che ieri sera Renzi è tornato ad attaccare con asprezza senza precedenti i senatori «che pensano solo alle loro poltrone», annunciando l'intenzione di non farsi «ricattare» da una minoranza prevaricatrice. L'argomento è quello consueto: «undici milioni di italiani ci hanno dato la missione di cambiare il paese e noi non ci fermeremo». Affermazione senza dubbio convincente, ma qui il problema non è la strategia bensì la tattica: ossia il modo migliore per ottenere dal Parlamento il varo della riforma.
A tal fine sarebbe opportuno decidersi fra due linee diverse che si sovrappongono. O la mediazione, purché convinta e finalizzata a un risultato concreto. Oppure il muro contro muro senza ripensamenti e senza zig-zagare. Ben sapendo, in questo secondo caso, che ci si espone a gravi rischi. Il cammino parlamentare a Palazzo Madama è costellato di varie trappole e alcuni voti segreti sono insidiosi: nonostante che il primo, ieri pomeriggio, si è risolto in un successo della maggioranza (ma era un tema scontato, la parità di genere).

Se il presidente del Consiglio vuole ottenere che la riforma passi, a Ferragosto o magari all'inizio di settembre, questo alternare il bastone e la carota non sembra oggi la scelta migliore. Una riscrittura della Costituzione fatta in un clima esasperato lascia perplessi, come notava ieri anche un noto amico di Renzi qual è Diego Della Valle. Se invece l'obiettivo fosse quello di dimostrare che l'Italia politica non è riformabile, così da preparare il terreno per un successo elettorale di larghe dimensioni (qualcuno direbbe un plebiscito), allora si capirebbero meglio certi "strappi" e gli attacchi ai parlamentari. Ma tutti sanno che il sentiero per arrivare al voto anticipato è comunque lungo e contorto, reso più impervio dalla condizione economica del paese.

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