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Questo articolo è stato pubblicato il 12 agosto 2014 alle ore 07:10.
L'ultima modifica è del 12 agosto 2014 alle ore 07:14.

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Sulle riforme da fare non accetta lezioni o tutele di nessuno: deciderò io in prima persona. Sulla cessione di sovranità nazionale per facilitarle, poi, neanche a parlarne: «Non sono d'accordo».

Matteo Renzi ha scelto le pagine del Financial Times, il quotidiano più letto nelle cancellerie europee, per dare la massima risonanza alla sua presa di posizione: sia in risposta alle esplicite sollecitazioni della Bce di Mario Draghi sia, e forse soprattutto, in vista dei negoziati in corso da mesi nell'eurozona e che nei prossimi mesi potrebbero arrivare alla stretta finale, sull'integrazione delle politiche economiche come dovuto contraltare della politica monetaria unica.

Federalista da quasi sempre ai limiti del fideismo, l'Italia di Renzi assume dunque un piglio nazionalista, rivisita il gollismo in salsa nostrana nel mezzo del suo semestre di presidenza dell'Ue? La domanda è legittima, la risposta ancora incerta, perché le frasi trancianti del presidente del Consiglio lo vedono sulla difensiva in Europa più che all'offensiva, alla guida di un paese fragile e di nuovo in recessione, privo del credito e della credibilità indispensabili per poter dialogare con i partner da posizioni di forza.

Del resto, dopo due trimestri di sviluppo negativo, disincanto e giudizi critici crescenti in giro per l'Unione sulla lentezza dell'azione del suo governo rispetto alle aspettative suscitate, ieri anche Moody's ha suonato l'allarme Italia: il 2014 si chiuderà non con l'annunciata crescita dello 0,8% ma con una contrazione dello 0,1, che peserà sulla tenuta dei conti pubblici, complicherà il cammino delle riforme, creerà tensioni in Italia e in Europa, in particolare con la Germania.

Comunque lo si guardi, sarà un autunno caldo. Per tutti. Per il governo Renzi che dovrà dimostrare di essere davvero un innovatore, il regista intelligente del cambiamento strutturale del sistema-paese senza il quale sarà impossibile ricreare la fiducia e quindi gli investimenti pubblici e privati, italiani ed esteri necessari a rimettere in moto l'economia. E per l'Europa che non riuscirà a uscire definitivamente dalla crisi dell'euro fino a che non deciderà che cosa vuole fare da grande, come e con chi.

Il premier e prima di lui Draghi hanno messo il dito su uno dei grandi nervi scoperti dei dibattito europeo. La crisi dell'eurozona ha dimostrato che la politica monetaria unica da sola non basta a garantirne la stabilità quando le politiche nazionali di bilancio e quelle macro-economiche possono muoversi a ranghi sciolti e in sostanziale libertà. Con fiscal compact, six-pack e two-pack si è già rafforzata la governance del club sul lato dei conti pubblici.

Sul lato delle politiche strutturali, estremamente disomogenee, gli accordi raggiunti appaiono invece a molti, Bce e Germania in primis, ancora insufficienti per essere efficaci. Di qui l'idea della cessione di sovranità nazionale anche in materie come il mercato del lavoro, salari, pensioni, welfare etc., in breve i settori dove le riforme sono più urgenti.

Lo strumento potrebbero essere i cosiddetti contratti bilaterali. La proposta, tedesca, prevede che i singoli paesi negozino con Bruxelles e l'eurogruppo un preciso calendario di riforme da attuare entro tempi prestabiliti e sotto sorveglianza europea. Per ora l'iniziativa non ha fatto molta strada per la ferma opposizione di diversi paesi. Prima di tutto della Francia di François Hollande, che non intende cedere altri poteri sovrani almeno fino a che l'eurozona non si doterà di un proprio bilancio, destinato a finanziare la svolta verso un modello economico europeo più convergente.

E qui sta il punto: un bilancio per l'eurozona equivale per i tedeschi a creare con il denaro dei propri contribuenti l'aborrita unione dei trasferimenti finanziari a favore di partner "parassitari". Per i francesi rappresenta invece la condicio sine qua non, la cassa della solidarietà collettiva senza la quale ogni nuova rinuncia di sovranità resta un tabù.
Se mai si arrivasse all'accordo su un bilancio vero e adeguato per l'eurozona (non come quello per la risoluzione delle crisi bancarie), sarebbe una svolta storica: il segnale che l'attuale indiscusso dominio della cultura tedesca sulla moneta unica cederebbe il passo a una visione e a una sensibilità più europea. Vorrebbe dire per l'euro l'ingresso nell'età adulta, quella della fine dei sorvegliati speciali e del principio della mutualizzazione degli interessi e dei rischi. Diventerebbe la prima pietra di una vera unione politica.

Fantasie? No. Se l'euro vuole durare davvero, non ha alternative. Però il riequilibrio dei rapporti di forza e di culture in Europa non può prescindere dall'estrema serietà di chi li pretende nel rispettare gli impegni presi in fatto di riequilibrio dei conti pubblici e riforme strutturali. La Francia di Hollande e l'Italia di Renzi per ora sono le due grandi ritardatarie.

Va benissimo, dunque, mettere sempre tutti i puntini sulle "i" e anche rivendicare i propri autonomi margini di scelta (sia pur sapendo che l'adesione all'unione economico-monetaria li ha già molto ridotti). A patto che poi le cose si facciano davvero e presto: euro o no, la decrescita non è mai stata felice per nessuno, escluso forse qualche benestante sognatore. E poi fare la voce grossa in Europa va benissimo, purchè si abbiano tutti i requisiti a posto per farla.
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