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Questo articolo è stato pubblicato il 22 agosto 2014 alle ore 07:15.
L'ultima modifica è del 22 agosto 2014 alle ore 08:30.

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L'Italia vive una terza ricaduta recessiva ma non ci è arrivata da sola. È il fallimento dei politici italiani sul fronte della competitività ma è un fallimento generalizzato in Europa.
Quando è scoppiata la crisi finanziaria nell'ultimo trimestre del 2007, il Pil italiano è precipitato del 7%, si è rialzato del 3%, è risceso del 5%, risalito di un misero 0,1% e, nella seconda metà di quest'anno, si è contratto di nuovo, stavolta dello 0,3%. Negli ultimi sette anni la contrazione complessiva del Pil è stata del 9 per cento. Inoltre, la produzione industriale è precipitata di un inquietante 24 per cento. Se il Pil italiano è riuscito a mantenersi costante è stato solo grazie alla sua inflazione tenacemente persistente.

La disoccupazione complessiva è salita al 12% mentre il tasso di giovani che non vanno a scuola è salito al 44 per cento. L'Italia ha cercato di contrastare la contrazione economica aumentando il debito pubblico. Grazie agli interventi di salvataggio intergovernativi e della Banca centrale europea per mantenere bassi i tassi di interesse, il debito pubblico italiano è aumentato solo di un terzo dalla fine del 2007 alla primavera del 2014. Il nuovo premier Matteo Renzi dice di voler stimolare la crescita, ma in realtà intende solo accumulare altro debito. È vero, il debito stimola la domanda, ma è un tipo di domanda artificiale ed effimero. La crescita sostenibile potrà essere raggiunta solo se l'economia italiana ritrova la sua competitività e all'interno dell'eurozona c'è solo un modo per farlo: riducendo i prezzi rispetto ai concorrenti dell'eurozona. Ciò che l'Italia è riuscita a fare svalutando la lira deve essere ora emulato attraverso un vero e proprio deprezzamento.

L'epoca dei tassi di interesse bassi che è seguita alla decisione di introdurre l'euro, nel 1995, ha creato un'enorme bolla creditizia nei Paesi meridionali dell'eurozona che è perdurata sino alla fine del 2013. In quel lasso di tempo, l'Italia è diventata più cara del 25% (sulla base del suo deflatore Pil) rispetto ai suoi partner commerciali dell'eurozona. Diciassette punti percentuali di questo aumento possono essere attribuiti all'inflazione più alta e otto alla rivalutazione della lira operata prima dell'introduzione dell'euro. Rispetto alla Germania, l'Italia è diventata più cara del 42%, un dato esorbitante. Il problema dell'Italia è proprio questo differenziale di prezzo. Il Paese deve correggere questo sbilanciamento attraverso un vero deprezzamento, non c'è altra soluzione. Ma è più facile a dirsi che a farsi. Alzare i prezzi non è mai un vero problema, abbassarli o farli aumentare più lentamente rispetto a quelli dei Paesi concorrenti è penoso e fa paura.

Anche se i sindacati di un Paese permettessero una politica del genere attraverso una moderazione salariale, i debitori si troverebbero in difficoltà, perché avrebbero preso in prestito presumendo che l'inflazione si sarebbe mantenuta alta. Molte aziende e molte famiglie andrebbero in bancarotta. Visto che la disinflazione o la deflazione porta a una valle di lacrime prima che la competitività aumenti, c'è ragione di dubitare che i politici neoeletti, con il loro orientamento a breve termine, siano capaci di mantenere la rotta. L'ex-premier Berlusconi voleva risolvere il problema facendo uscire l'Italia dall'eurozona e svalutando la nuova moneta. Aveva avuto dei colloqui esplorativi con gli altri Governi dell'eurozona nell'autunno 2011 e aveva cercato di raggiungere un accordo con il premier greco Papandreu che aveva proposto un referendum che avrebbe veramente imposto la scelta fra un'austerity severa e l'uscita dall'eurozona. Ma entrambi hanno dovuto dimettersi a tre giorni l'uno dall'altro, nel novembre 2011. A militare contro l'uscita c'erano considerazioni politiche più alte, oltre agli interessi del sistema bancario.
L'economista Mario Monti, succeduto a Berlusconi come primo ministro, ha tentato un vero e proprio deprezzamento, introducendo una maggiore flessibilità nel mercato del lavoro per costringere i sindacati a fare concessioni salariali. Ma gli sforzi di Monti sono stati vani: fra gli altri problemi, la Bce, con il suo generoso aiuto finanziario, ha sollevato sindacati e aziende dalla forte pressione.

Enrico Letta, che è succeduto a Monti, non aveva un chiaro concetto di riforma ed è stato rimpiazzato dal carismatico Renzi. Ma se Renzi dedica molta energia verbale all'economia, finora non ha fatto capire di aver compreso la vera natura del problema italiano. E non è l'unico. Anzi, praticamente l'intera classe politica europea, da Bruxelles a Parigi e Berlino, pensa ancora che l'Europa soffra di una semplice crisi finanziaria e di fiducia. Non parla della perdita di competitività che sta alla base del problema perché parlarne solamente non basterebbe a risolverla.

(Traduzione di Francesca Novajra)

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