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Questo articolo è stato pubblicato il 27 agosto 2014 alle ore 08:45.
L'ultima modifica è del 27 agosto 2014 alle ore 08:50.

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La pubblicazione dei più noti ranking internazionali delle università provoca in Italia una serie di reazioni ormai prevedibili: disappunto complessivo, con toni dolenti o esasperati, e abbozzi di soddisfazione per gli atenei che comunque se la passano meglio di altri a livello nazionale. La nuova edizione della classifica prodotta dalla Università Jiao Tong di Shanghai conferma il quadro cui siamo da tempo abituati: nessun ateneo italiano rientra tra i primi 150 al mondo e sei si collocano tra il 150mo e il 200mo posto (in ordine alfabetico: Bologna, Milano, Padova, Pisa, Roma Sapienza, Torino). Però tra le prime 500 le università italiane sono 21 (alla pari con le francesi), un numero alto e – se si vuol dare credito alla classifica – nel complesso lusinghiero.

Prima però di emozionarsi troppo, in un senso o nell'altro, di fronte a questi risultati vale la pena di capire come nasce e come è strutturato l'esercizio. L'obiettivo della Jiao Tong era e resta fin dall'inizio (2003) quello di individuare la posizione delle università cinesi nel contesto internazionale e al contempo di offrire qualche orientamento al gran numero di studenti che ogni anno vengono inviati a studiare all'estero. Queste finalità spiegano la metodologia adottata, che punta su dati facilmente accessibili e di forte impatto intuitivo, ma assai parziali. La qualità della didattica, per esempio, è valutata solo sulla base del numero di premi Nobel e medaglie Fields (il "Nobel" della matematica) che ciascun ateneo annovera tra i suoi laureati. Essere una "fabbrica di Nobel" è un fattore di ovvio richiamo, ma i Nobel sono solo 847 in tutto dalla fondazione del premio e le medaglie Fields appena 56, un campione non particolarmente significativo per valutare la qualità della didattica nel suo complesso, che però pesa per il 10% nella formula Jiao Tong. Poiché il numero di Nobel e Fields che insegnano o hanno insegnato in un'università incide addirittura per un quinto sul ranking complessivo in quanto indicatore di prestigio del corpo docente, è chiara la difficoltà strutturale di migliorare sensibilmente la propria posizione, difficoltà esacerbata per molti atenei italiani dal fatto che Jiao Tong, e questo di nuovo si spiega con le sue finalità, non considera le scienze umane.

Rankings ne esistono ormai molti, un po' di tutti i tipi. Alcuni, come ad esempio il noto QS, attribuiscono molto peso al fattore reputazionale, cioè di fatto a un sondaggio tra addetti ai lavori, poco affidabile e comunque soggetto a manipolazione (Sole 24 Ore del 9 settembre 2011). Altri, come il Times Higher Education, ricorrono ad un paniere più articolato di indicatori. L'Unione Europea ha deciso di intervenire promuovendo la creazione dello U Multirank (www.u-multirank.eu), che invece di produrre una hit parade unica offre la possibilità di confrontare i profili degli atenei in diversi settori di attività (ricerca, trasferimento tecnologico, orientamento internazionale, collaborazione regionale). L'obiettivo è quello di spostare l'attenzione dalle classifiche ai dati, e la piattaforma, varata da poche settimane, raccoglie in effetti dati interessanti e più analitici. È presto però per dire quale sarà l'impatto complessivo dell'iniziativa, ma intanto neppure il Multirank ha resistito alla tentazione di offrire qualche classifica parziale, per settore.

La realtà virtuale creata dalle classifiche, lo si voglia o no, influisce su come vengono percepiti le singole istituzioni e il sistema nel suo complesso. A livello di policy, però, l'esercizio serve a poco. Sono dati più concreti - il numero di iscritti, gli abbandoni, la regolarità degli studi, la qualità della ricerca, il rapporto tra finanziamenti disponibili e risultati conseguiti, tanto per citarne alcuni - che conviene tener d'occhio e sui quali impostare strategie di miglioramento.

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