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Questo articolo è stato pubblicato il 06 settembre 2014 alle ore 09:30.
L'ultima modifica è del 06 settembre 2014 alle ore 09:43.

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Quando il presidente americano Barack Obama ha dichiarato che gli Stati Uniti non avevano una strategia contro l'Isis, in molti hanno inarcato le sopracciglia stupiti.
In realtà non si trattava dell'ennesimo scivolone sulla buccia dell'inconscio ma di una precisa volontà di evitare congetture su un impegno militare esteso, assai impopolare nella pubblica opinione statunitense dopo la tragica avventura irachena. «No boots on the ground», niente stivali sul terreno, ripete la leadership di Washington.

La decisione presa in Galles di formare una coalizione di 10 Paesi (tra cui l'Italia) per fermare lo Stato Islamico risponde alla necessità della Nato di fornire una replica politico-militare alla ferocia del Califfato ma anche di indicare che Usa e Occidente non intendono essere inghiottiti in un nuovo conflitto in Medio Oriente. Raid aerei, consiglieri militari all'Iraq, forniture di armi ai peshmerga ma, per carità, niente truppe sul terreno, se non per qualche azione mirata delle forze speciali da reclamizzare solo a successo avvenuto oppure, se fallisce, da nascondere sotto il tappeto.

Ma allora chi combatterà davvero contro i feroci jihadisti che imperversano tra la Siria e l'Iraq?
La risposta non viene dalla brumosa Newport ma dalla ben più assolata Teheran. Perché qualche domanda sugli alleati dentro e fuori questa coalizione bisogna pur farsela. C'è la Turchia, per esempio, da 60 anni un bastione della Nato. E che cosa ha fatto la Turchia in questi tre anni se non far passare dalla sua frontiera migliaia di jihadisti anti-Assad che poi sono entrati nelle milizie del Califfato? È chiaro che Ankara ora deve cambiare registro. Per non parlare dell'Arabia Saudita, che insieme e in concorrenza con le altre monarchie del Golfo ha sostenuto in Siria e Iraq i gruppi più radicali per manovrarli contro la Mezzaluna sciita.

È così che entra in gioco l'Iran, impegnato nella fase finale del negoziato nucleare. La Guida Suprema, l'ayatollah Ali Khamenei, ha ordinato al generale Qassem Soleimani, comandante delle forze di élite Al Qods e presente in questi giorni nella città irachena di Amerli, di collaborare con le forze schierate contro lo Stato Islamico, americani compresi. Non è la prima volta: avvenne già dopo l'11 settembre 2001, quando Teheran cooperò con gli Usa per sbalzare i talebani, gli ospiti di Bin Laden.

Ma l'Iran, come è noto, insieme agli Hezbollah libanesi e a Mosca, appoggia, oltre che il governo sciita di Baghdad, il regime siriano di Assad, l'unico vero esercito organizzato che combatte i jihadisti, visto che quello iracheno, addestrato e rifornito dagli americani, si è dissolto a Mosul: la Siria è la chiave di volta per battere il Califfato e smantellare la sua retrovia strategica.
Questo è il non detto del vertice Nato in Galles: in Mesopotamia gli stivali sul terreno li hanno i peshmerga curdi ma soprattutto le milizie sciite irachene guidate dai pasdaran iraniani e gli uomini di Assad, un regime che un'estate fa gli Usa volevano bombardare per aver utilizzato armi chimiche. Gli Hezbollah, arcinemici dei sunniti e di Israele, sono quelli che in Siria hanno cacciato i jihadisti, sostenuti da turchi e sauditi, dalle città cristiane devastate. Piaccia o meno questa è la realtà, il resto sono chiacchiere.

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