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Questo articolo è stato pubblicato il 10 settembre 2014 alle ore 07:00.
L'ultima modifica è del 10 settembre 2014 alle ore 07:13.

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«La Borsa approva la svolta al vertice Ferrari: il titolo Fiat sale di quasi il 2%». I titoli delle agenzie di stampa semplificavano così, ieri, il giudizio della Borsa sull'ormai scontato cambio della guardia nel presidio più importante della galassia del Lingotto.
Scontato non perché annunciato o confermato dalla proprietà, da cui ancora si aspetta una parola sul caso, ma perchè questa è la percezione generale: se la Exor tace la parola di Marchionne è la parola dell'azionista, e tanto basta per il mercato per scommette apertamente non solo su una presidenza dello stesso amministratore delegato della Fiat a Maranello, ma persino su un'accelerazione di alcuni progetti «strategici» per Fiat-Chrysler e per Ferrari che sono stati «strategicamente» chiusi nella cassaforte del Lingotto per più di un anno e di cui importanti banchieri hanno buona conoscenza.

Per il mercato, insomma, la «spettacolarizzazione» della rottura tra i due manager e in particolare della frattura insanabile tra Montezemolo e il ramo dominante degli eredi Agnelli, è stata certamente poco edificante per l'immagine del nostro capitalismo e forse una caduta di stile per quella che era considerata come la «famiglia Kennedy italiana», ma non c'è dubbio che dietro alla brutalità di questo scontro ci sia molto di più di un semplice regolamento di conti tra i rami della famiglia. Fermandosi al giudizio morale, insomma, si rischia di non vedere il disegno industriale e finanziario di fondo, di non cogliere la vera sostanza dei fatti e gli obiettivi che hanno spinto la proprietà ad eliminare l'ultima isola semi-indipendente del gruppo Fiat affidandone la gestione al suo leader indiscusso, Sergio Marchionne.

Se il Ceo del Lingotto - come tutto lascia pensare - diventerà anche presidente della Ferrari, sarà non solo il primo top manager della Fiat ad aver assunto questo incarico a Maranello, ma anche il garante unico e plenipotenziario del progetto originario che lo aveva portato dalla Svizzera al Lingotto: l'uscita progressiva della famiglia Agnelli dall'auto (volontà annunciata alcuni anni fa e ribadita in più occasioni dallo stesso John Elkann), la ricerca di un partner industriale o di un vero acquirente per Fiat-Chrysler, la valorizzazione borsistica della Ferrari (con Maserati e Alfa) con il passaggio del suo controllo dalla Fiat all'Exor. In quest'ottica, secondo i ben informati, il licenziamento di Montezemolo sarebbe dunque solo la prima mossa di un risiko di ben più vasta portata che avrebbe al centro tutti i satelliti della galassia Agnelli: la Fca, la Ferrari e la Exor.

In sostanza, questo è lo scenario e i ragionamenti che ne sono alla base. Partiamo da Fca. Per la famiglia Agnelli, la quotazione a Wall Street del gruppo Fca è necessaria non solo perchè, come è stato detto da Elkann e Marchionne, «si tratta del più importante mercato dei capitali», ma per ragioni più ampie: in America, e soprattutto in Delaware dove è oggi incorporata Fiat Usa, ci sono regole diverse e più favorevoli per avviare negoziati riservati con controparti o per difendersi in caso di take-over, senza contare il contatto diretto con la finanza di supporto e la maggiore facilità negoziale con tutte le grandi corporation dell'auto e in particolare con i colossi cinesi dell'auto, di cui la gran parte sta valutando l'ipotesi di una quotazione a Wall Street dopo quella di Hong Kong. Se gli Agnelli vogliono trovare un partner per la Fca, New York è la sede adatta per farlo, l'Olanda per deliberalo, Londra per minimizzare le tasse. Il problema, se così si può definire, è però la Ferrari: a Wall Street non hanno mai nascosto il forte gradimento sulla scuderia di Maranello come unità indipendente dalla Fiat, perorando l'opportunità di un suo spin-off dal gruppo.

È noto a tutti, del resto, che il titolo Fiat è oggi valorizzato sulla base degli utili che gli porta la Ferrari, non certamente delle perdite che genera Fiat Auto: con la quotazione separata, il titolo Ferrari potrebbe correre in Borsa più velocemente di quanto non faccia in pista. Le azioni scorporate di Maranello sarebbero quindi assegnate agli azionisti della Fiat, con la Exor che resterebbe quindi saldamente in controllo della scuderia quotata. E il titolo Fiat? Per il titolo Fiat (o Fca) sarebbe un colpo durissimo l'uscita della Ferrari dal proprio perimetro: già oggi si calcola che su 9 miliardi di capitalizzazione di Borsa di Fiat, circa 5 siano il contributo della Ferrari. Il titolo potrebbe però godere di un fattore di sostegno importante: la prospettiva di una cessione del gruppo o dell'ingresso di un partner industriale. Senza la Ferrari in pancia alla Fca, infatti, gli analisti ritengono che la famiglia Agnelli sarebbe ben più libera dai condizionamenti italiani su un cambio di proprietà dei suoi marchi: un conto è cedere la Fiat senza la Ferrari - vero e forse ultimo grande simbolo del made in Italy e dell'italianità nei beni di lusso - un altro è far entrare un gruppo cinese al vertice della holding Fca che controlla la Ferrari.

È ovvio che in quest'ultimo caso il Lingotto rischierebbe di finire sotto tiro dell'opinione pubblica per aver svenduto all'estero il Cavallino Rampante. Detto questo, resta Exor: se i piani di cui si discute dietro le quinte andranno avanti, la holding degli Agnelli diventerà la cassaforte della Fiat (finchè è loro) e soprattutto della "nuova Ferrari", l'asset più importante che oggi c'è sul tavolo. E con in portafoglio un marchio tanto visibile e importante per il made in Italy, è probabile che altre operazioni nel campo dello stile italiano potrebbero diventare realtà. Tra queste, si rumoreggia anche di un possibile ingresso di Exor nel gruppo Armani: tra lo stilista e gli Elkann-Agnelli ci sono infatti legami di parentela e amicizie personali che potrebbero favorire una svolta clamorosa tra le due realtà. Ma questa è un'altra storia.

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