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Questo articolo è stato pubblicato il 17 settembre 2014 alle ore 07:35.
L'ultima modifica è del 17 settembre 2014 alle ore 07:21.

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È stato un Matteo Renzi più misurato del solito. Non il guascone che alcuni annunciavano. Ma un presidente del Consiglio consapevole del momento, che ha rinunciato - forse ben consigliato - ai toni spavaldi verso l'Europa e ha illustrato con inedito ordine il suo piano di riforme per trasformare - come è necessario - l'Italia.

Sarà stata la presa d'atto del drammatico stallo dell'economia, con una crescita che il Centro studi Confindustria ieri ha confermato ben sotto lo zero; sarà stato il pressing dell'Europa, che considera scaduto il tempo delle promesse: fatto sta che Renzi ha dimostrato nel suo discorso alle Camere di avere una nuova cognizione del cambio di fase necessario e dell'obbligo di affrontare con maggior sistematicità i nodi cruciali di un rilancio economico che continua drammaticamente a slittare.

Ci si poteva aspettare di più sui tempi delle singole riforme e sul merito dei nodi politici che vanno sciolti per trasformare il riformismo d'impeto in riformismo dei fatti. Troppe poche parole, poi, sono state dedicate alla legge di stabilità. Ma la vera novità della giornata si chiama articolo 18, ovvero superamento della reintegra obbligatoria del lavoratore.

Renzi ieri ha rotto gli indugi sull'ultimo dei tabù della sinistra e del mondo del lavoro. Il premier sa che su questo, su una maggiore flessibilità in uscita per i contratti a tempo indeterminato, si gioca una partita decisiva per la credibilità in Europa del suo governo e, sul fronte interno, per archiviare definitivamente ogni conservatorismo nel suo Pd.

Una partita difficile. Tutta ancora da giocare. Ma con i tempi stretti che l'emergenza lavoro, oltre che le attese dell'Europa, impone. Perciò ieri Renzi ha scelto di portare il suo affondo proprio sul Jobs Act, evocando anche la possibilità di un decreto. Sulla questione cruciale dell'articolo 18, però, in Parlamento si è tenuto ancora al di qua delle colonne d'Ercole. Ha incalzato sulla necessità di superare il dualismo nel mondo del lavoro, ma non ha parlato, ancora, di superamento della reintegra obbligatoria. Il dado però era lanciato.

Così in serata alla direzione del partito il superamento dell'articolo 18 è stato evocato direttamente. Renzi illustrerà il suo piano a una direzione appositamente convocata per fine mese. Ma ieri sera raccontava così il progetto: «Lo Statuto del lavoro va riscritto e il dualismo tra "garantiti e non" va superato anche con una maggiore flessibilità nei contratti a tempo indeterminato, cioè con il superamento della reintegra obbligatoria prevista dall'articolo 18». Ovviamente questo deve avvenire, nel piano di Renzi, con un contestuale rafforzamento delle tutele economiche per chi perde il posto di lavoro. E qui il premier inserisce l'altra parte del discorso: «Con la legge di stabilità metteremo le risorse necessarie a rafforzare gli ammortizzatori, in questo modo anche i più scettici potranno convincersi sull'abolizione della reintegra obbligatoria».

È evidente che a questo punto un passaggio decisivo sarà proprio quello delle coperture da trovare nella legge di stabilità. Una "finanziaria" che diventa sempre più complessa, per la quantità di risorse che dovrà mobilitare. Eppure Renzi ieri alle Camere ha sorprendentemente eluso il tema della manovra di bilancio e dei tagli da 20 miliardi che serviranno in gran parte (16 miliardi) a coprire misure esistenti. Tra queste il sempre più contestato bonus da 80 euro, che da solo vale 10 miliardi. Il premier ha ribadito che non tornerà indietro. Comprensibile. Per il governo, come ha ammesso lo stesso ministro Padoan, è «una priorità politica» prima che una scelta economica. Ma con questa zavorra si riuscirà a liberare le risorse necessarie a ridurre le imposte sulle imprese e sul lavoro, vera priorità riconosciuta anche dall'Eurogruppo a Milano la settimana scorsa? E ora anche a trovare i fondi per la riforma degli ammortizzatori sociali?

Nessuno può credere seriamente che si potranno risparmiare 20 miliardi senza incidere sui grandi capitoli del bilancio pubblico, che sono le pensioni (254 miliardi, il 35% della spesa al netto degli interessi), la sanità (110 miliardi, il 14%), il pubblico impiego (164 miliardi, il 22,9%). Ma di tutto questo nel discorso di Renzi non c'è traccia.

È vero che il tema dell'intervento alle Camere era il cosiddetto "piano dei mille giorni". Ma è possibile parlare di un piano dei mille giorni senza entrare nella carne viva delle risorse necessarie a sostenere quelle riforme? È credibile un progetto di rilancio dell'economia senza delineare l'infrastruttura finanziaria necessaria a sostenerlo? Tanto più che si avvicinano le scadenze che contano. Quella della legge di stabilità, appunto, prevista tra il 10 e il 15 ottobre, ma anche quella del Consiglio europeo di fine ottobre. Per quella data l'Italia, se vorrà davvero accedere a una maggiore flessibilità sui conti pubblici, dovrà aver dimostrato di aver fatto passi avanti molto concreti sulle riforme. E su una in particolare, proprio quella del lavoro.

Perciò è davvero venuto il momento per Renzi di rompere l'ultimo dei tabù. Un'ennesima riforma del mercato del lavoro annacquata dalle tante resistenze conservatrici non serve a nessuno. Non serve certamente per dare il segnale di credibilità necessario in Europa, ma soprattutto non serve a dare all'Italia un mercato del lavoro più efficiente e più giusto.
La svolta del riformismo dei fatti deve passare anche da qui.
@fabrizioforquet
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