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Questo articolo è stato pubblicato il 20 settembre 2014 alle ore 09:50.
L'ultima modifica è del 20 settembre 2014 alle ore 09:57.

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«Perché correre un rischio inutile?». Sarà anche un pensiero debole - non inteso nell'accezione strettamente filosofica - e magari infettato da una visione relativistica dell'esistenza, ma quello espresso dall'architetto anglo-messicano Juan de la Pena, sull'uscio di un seggio di Edimburgo, potrebbe essere il manifesto del No scozzese all'indipendenza. Ha prevalso la consapevolezza che l'autonomia estrema è preferibile alla secessione da un assetto radicato in secoli di storia.

Ha prevalso la tesi suggerita da Bill Clinton che invitava Lowlands e Highlands a fare scuola nel mondo, puntando alla devolution per archiviare l'avventurismo indipendentista. Ora che i numeri hanno fermato il destino della Scozia resta da capire per quale motivo il premier David Cameron abbia rigettato - per restare alla metafora - il semplice ragionare del signor de la Pena.
Perché si è arrivati a tutto questo? Perché è stato esposto il Regno Unito al rischio reale di dissoluzione, l'Europa a scosse che non cessano neanche ora e il mondo a vivere istanti di ansia nel contesto fragile di relazioni globali? Al di là delle alchimie sul teorico vantaggio politico di una scelta del genere, c'è stata da parte del premier britannico la macroscopica sottovalutazione delle conseguenze di un referendum che doveva essere proposto in modo diverso. Nel quesito si poteva inserire la concessione, come ulteriore opzione, di maggiore autonomia in accordo con i nazionalisti. Una visione machista del confronto politico ha consigliato Londra di puntare sulla scommessa secca, dentro o fuori, nella supponente convinzione che dalla Gran Bretagna nessuno voglia andarsene.

Non è così. David Cameron deve ringraziare il sondaggio realizzato da YouGov che dieci giorni fa ha suonato la sveglia a tutti, svelando la minaccia secessionista, se non passerà alla storia come il distruttore del Regno Unito. Appena in tempo per innescare una ripensamento imbarazzante. L'ulteriore decentramento che si è voluto negare nel referendum è stato rispolverato, alla vigilia del voto, sotto forma di impegno formale, sottoscritto da tutte le forze di Westminster. Un patto sulla cui tenuta già s'addensano preoccupanti nubi.
Il No ha vinto anche, soprattutto, per questa tardiva correzione. Londra avrebbe potuto risparmiare angosce a se stessa e al mondo se avesse agito prima, con onestà e con coraggio. Non regge neppure la tesi del "decisionismo inevitabile" pronunciata da Cameron ieri, sull'uscio di Downing Street, in difesa di una consultazione che, a suo parere, solo così poteva scrivere una parola definitiva sul tema dell'indipendenza scozzese. L'opzione di ulteriore autonomia avrebbe ottenuto analogo esito, senza creare i traumi con i quali dovrà continuare a fare i conti la Spagna per gestire la scalpitante Catalogna, delusa e rinfrancata al tempo stesso da un voto che assegna agli indipendentisti di Scozia non il 10, ma il 45% del consenso popolare. Numeri consistenti abbastanza da permettere al leader nazionalista e "premier" di Scozia Alex Salmond di ammettere, insieme alle sue dignitose, immediate dimissioni, sia la sconfitta, sia la speranza che la secessione di Edimburgo sia solo rinviata.

Quando scatterà l'ora dell'altra disfida a petto in fuori lanciata da David Cameron, quella sulla permanenza o meno del Regno Unito nell'Unione europea, che anche Margaret Thatcher volle sempre evitare, la questione scozzese, è certo, si ripresenterà drammaticamente. Il Vallo traccerà la linea fra l'europeismo scozzese e l'euroscetticismo inglese. I costituzionalisti di un Paese senza costituzione scritta avranno il loro daffare a gestire una crisi annunciata e creata da una politica che indugiando sulla contrapposizione rinuncia alla mediazione.
In attesa di allora la Gran Bretagna giura di trasformarsi. Il decentramento che il governo ha promesso sarà esteso a tutte le nazioni del Regno, Inghilterra compresa, in linea con un piano che risponde a urgenze di politica interna (il partito conservatore, inesistente in Scozia, minaccia la fronda se la devolution non favorirà anche le aree del Paese dominate dai Tories) e a esigenze oggettive. Per riuscire dovrà, però, dimostrare di sapersi misurare con la sfida più grande: colmare il Vallo vero del Regno, quello - già analizzato in questo giornale - fra il giganteggiare di Londra e il resto del Paese. Fino ad allora ogni redistribuzione di poteri e risorse avrà l'effetto di placare la Scozia, accontentare l'Inghilterra, tranquillizzare l'Ulster, convincere il Galles e magari far rivincere i conservatori, senza però risolvere le disuguaglianze che affliggono il Regno, ancorché rimasto Unito, di Elisabetta.

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