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Questo articolo è stato pubblicato il 20 settembre 2014 alle ore 09:52.
L'ultima modifica è del 20 settembre 2014 alle ore 19:44.

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Pericolo scampato. La secessione del Regno Unito non ci sarà. Dunque la "scuola di Edimburgo" per ora non farà proseliti né scatenerà il temuto effetto domino tra le tante pulsioni indipendentiste che proliferano in giro per l'Unione. Sarebbe però incauto liquidare la vicenda come un fenomeno da archiviare rapidamente nei libri di storia britannici.

Volenti o nolenti, al di là della sua dimensione localistica, la sindrome scozzese è infatti il sintomo emerso e conclamato di un malessere sempre più diffuso in Europa dove dilaga la voglia di rigetto verso quasi tutti gli assetti istituzionali costituiti: europei, nazionali o regionali che siano. Evidentemente a placarli non bastano le forme più o meno spinte di autonomia, come quelle da tempo concesse alla Scozia e ai suoi emuli in Spagna e Belgio. Perché? Da anni si sta sedimentando in una miscela esplosiva l'incontro-scontro con la globalizzazione mondiale ed europea e il disagio che produce dentro società completamente impreparate a metabolizzarla insieme alla crescente disaffezione verso gli Stati nazionali che, invece di provare a governare il problema con prontezza e lungimiranza, l'hanno sottovalutato o ignorato scaricandone comunque il peso sulle spalle di cittadini-vittime, impauriti e disorientati. Il risultato tangibile per ora si vede nella costante erosione di consensi non solo all'avventura dell'Europa integrata ma anche alla coesione dello Stato-nazione, che scricchiola scosso da ricorrenti spinte centrifughe e disgregative.

L'assalto alle presunte catene dello Stato-nazione (e/o dell'Europa-riformatorio) naturalmente è figlio anche della crisi economica prolungata di cui non si vede la fine, come dell'assenza di leadership e statisti al timone di democrazie che, destabilizzate dall'impatto con la nuova civiltà della comunicazione istantanea, ormai dovunque sembrano capaci di selezionare e catapultare la mediocrità al potere, con la sua provata incapacità di trovare risposte rapide, concrete e adeguate a problemi degli elettori. Ma è figlio anche degli egoismi sempre più diffusi in società che hanno paura dell'altro (europeo o immigrato non importa) e del futuro, complici le crescenti insicurezze economiche e sociali , il mondo aperto, la concorrenza libera o quasi. Ancora qualche anno fa a Bruxelles c'era chi sdrammatizzava l'impatto delle spinte identitarie regional-indipendentiste nella convinzione che avrebbero trovato un ordine e una collocazione sicura stemperandosi nella grande Europa delle regioni, in una sorta di gioco di vasi comunicanti a somma zero tra disintegrazione nazionale e integrazione europea. Ammesso che non sia sempre stata una costruzione onirica, oggi questa specie di felice equazione appare sempre meno credibile. Perché l' Europa ha perso appeal tra la gente e al contempo la bussola del suo futuro. La crisi dell'euro è riuscita a massacrarne il principio fondante dell'unità nella diversità.

Oggi sono di moda la legge del più forte e l'omologazione culturale su un modello sempre meno articolato e sempre più tedesco. E questo, ovviamente, non scoraggia ma esaspera le ansie identitarie. Che si esprimono nei movimenti separatisti come nella costante ascesa dei partiti nazionalisti, euroscettici e xenofobi. Lo sbandamento dello Stato-nazione, attraversato da fermenti anche contradditori ma comunque portatori di disgregazione interna e europea , non solo distrae l'attenzione dei suoi Governi ma ne indebolisce la voce e l'azione in Europa dove i riflessi integrativi di qualsiasi natura, politica o economica, finiscono per essere paralizzati o trasformati in monumentali tabù. Il tutto proprio quando servirebbe disperatamente il contrario: più governance comune, più coordinamento, più unione economica e politica per garantire una vita lunga e stabile all'euro. Per assicurare influenza e credibilità all'Europa assediata da crescenti minacce ai confini orientali e meridionali, tra la Russia di Putin che la incalza e il Califfato di Raqqa che la minaccia con ferocia medioevale. Dovrebbe dunque essere una priorità collettiva il superamento della sindrome scozzese che affligge Europa e Stati-nazione. Difficile però che lo diventi, almeno fino a quando i Governi non impareranno ad allungare lo sguardo oltre l'orizzonte dei sondaggi quotidiani. E delle emergenze nate, cresciute e incancrenite sul filo di una lucida e colpevole trascuratezza.

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