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Questo articolo è stato pubblicato il 23 settembre 2014 alle ore 06:52.
L'ultima modifica è del 23 settembre 2014 alle ore 10:31.

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Riccardo Muti non dirigerà l'Aida all'Opera di Roma: troppi intralci da parte dei sindacati. La vicenda sarebbe rimasta confinata alle pagine degli spettacoli dei quotidiani se avesse riguardato solo i fan di Verdi, ma è un simbolo potente dei ritardi italiani.
C'è un filo rosso che collega i mancati gorgheggi verdiani all'Italia di oggi e alle surreali argomentazioni in cui si attarda il dibattito sulla riforma del mercato del lavoro.
Il mondo fuori corre, sui binari su un mercato totalmente libero, e qualcuno in Italia continua a comportarsi come se vivessimo nel capitalismo protetto e chiuso del secolo scorso. Il maestro Muti, così, andrà a dirigere da qualche altra parte e il Teatro dell'Opera di Roma resterà un teatrino. Ma il pericolo maggiore è che, se la discussione nostrana sulle riforme strutturali resterà così retroverso, sarà l'Italia tutta a diventare un palcoscenico provinciale, con l'impresa che conta impegnata a guardare altrove.

Quanta nostalgia di gioventù c'è nell'arroccamento ideologico sull'articolo 18. Ma intanto i giovani, quelli veri, non capiscono di che si parla, perché loro, quella norma non l'hanno mai incrociata. Il 40 per cento di quei giovani non trova alcun lavoro. E, tra quelli che lo trovano, l'85% non solo non ha la protezione dell'articolo 18, ma non ha neppure una delle tante tutele di un contratto a tempo indeterminato.

Quel contratto, così come regolato dalle norme attuali, è talmente rigido che nessuna azienda italiana si arrischia ad usarlo. Renderlo più conveniente, meno oneroso fiscalmente, ma anche meno rigido, dovrebbe allora essere interesse di tutti, innanzitutto di chi vuole difendere i lavoratori e i giovani.

Nel capitalismo protetto dell'Italia del Novecento le imprese potevano svolgere un ruolo di supplenza rispetto allo Stato e fare da ammortizzatore sociale per i propri lavoratori garantendo loro un reddito dalla culla (lavorativa) alla tomba. Anche perché c'era uno scambio con lo Stato stesso, che garantiva all'impresa sussidi e protezioni di varia natura. Nel mercato aperto di oggi, dove gli investimenti corrono attraverso i confini ignorandoli spesso per via telematica, questa funzione non è semplicemente più possibile. Le imprese non possono permettersela. Per loro, garantire la tutela sociale del lavoratore significherebbe semplicemente chiudere al minimo cambiare delle condizioni del mercato e della produzione. Nel nuovo mercato globale la responsabilità del welfare deve tornare, anche in Italia, al suo naturale detentore, che è lo Stato. La discussione sull'articolo 18, e sul suo anacronismo, è tutta qui.

È vero, passare a un sistema di flexicurity sul modello dei paesi del Nord Europa costa. Ma proprio per questo conviene partire. Se ne parla da decenni. Almeno dai tempi di Tony Blair. Quando anche coloro che oggi vengono, magari ingenerosamente, collocati tra gli esponenti della "vecchia guardia" si ponevano il problema di come superare le rigidità dell'articolo 18 e di introdurre un sistema universale di welfare. Stefano Folli, da par suo, ha liquidato domenica scorsa gran parte del dibattito di questi giorni ricordando che già Ugo La Malfa, ancora prima, aveva lanciato alla politica la sfida della difesa dei non protetti.

Eppure, a distanza di decenni, siamo ancora qui. Qui ad interrogarci su come e quando partire con una riforma che tutti riconoscono necessaria. Alcuni - Massimo D'Antona, Marco Biagi - sono morti nel frattempo, uccisi dal furore ideologico. Oggi, per fortuna, non è più tempo - ce lo auguriamo davvero - di quella follia. E non è più neppure il tempo in cui Sergio Cofferati poteva portare una folla di 3 milioni di persone in piazza contro l'abolizione dell'articolo 18. Oggi se Susanna Camusso tentasse la stessa prova di forza scoprirebbe di aver dietro solo una ridotta nostalgica non certo quelle folle. Neppure più il sindacato ufficiale è compatto sulle posizioni conservatrice del vertice della Cgil.

Il mondo è davvero cambiato. I giovani non protetti di dieci anni fa sono diventati sempre di più. Sono loro, adesso, ad essere una massa. Mentre il fortino degli ipergarantiti si riduce. Perciò oggi Renzi governa e dalla Silicon Valley può rinnovare la sua sfida di cambiamento al mondo del lavoro. Sperando che voglia davvero una buona riforma, che non reintroduca dalla finestra rigidità che escono dalla porta, e non solo una vittoria politica all'interno del suo partito. Le note di Verdi riecheggeranno ormai lontane dall'Opera di Roma, ma la riforma del mercato del lavoro va fatta qui ed ora.

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