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Questo articolo è stato pubblicato il 06 ottobre 2014 alle ore 08:16.
L'ultima modifica è del 06 ottobre 2014 alle ore 08:37.

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Purtroppo questa Europa di guelfi e ghibellini, di frattura e fuga più che di coesione e di programma, non induce a credere, figurarsi a sperare e, meno che mai, a sognare. Eppure immaginare il sussulto di un'Europa del lavoro, di un continente unificato nelle sue regole e unico nel suo mercato di maestranze e cervelli non sarebbe così ingenuamente utopistico se solo i leader superassero la miopia contabile e si dedicassero all'Europa dei cittadini oltre che a quella dei parametri.

Il vertice Ue su lavoro e occupazione che si tiene mercoledì a Milano è un'occasione importante. Ed è probabile che l'Europa possa dire a tutti i partner una parola preziosa per trovare un modo per crescere e all'Italia – che presiede il semestre – per archiviare lo stallo miope e novecentesco dell'articolo 18. Per un Paese orientato a introdurre, forse per la prima volta, politiche attive vere – dall'Agenzia per l'impiego nazionale all'ammortizzatore sociale universale legato alla formazione – l'Europa diventa un interlocutore rilevante oltre che utile benchmark. La scelta di creare l'Unione attraverso la moneta cui far seguire, in una fase 2 mai pervenuta, l'unione "politica", sposta la discussione tra i partner sui temi legati alla politica monetaria e, per quella via, alle regole per le banche.

Non sarebbe tuttavia impossibile gestire, in parallelo, dati i fortissimi squilibri ancora indotti dalla recessione e dal rallentamento della crescita, un percorso di armonizzazione delle regole sul mercato del lavoro. Forme parziali di convergenza sono già in atto anche se il Vecchio continente è alle prese con il welfare a due facce tra il Nord della flexsecurity e della sussidiarietà e il Sud dell'assistenzialismo in deficit. E, del resto, la stessa Unione e la stessa Bce hanno più volte chiesto al Governo italiano riforme strutturali sul tema delicatissimo del lavoro.

Affrontare il tema impone necessariamente anche il ripensamento delle politiche di welfare e quindi delle politiche di spesa pubblica. È per questo che, porre come primo punto in agenda l'occupazione e la crescita, porta in ogni caso alla gestione delle politiche di bilancio. Per l'Europa l'approdo sarebbe certamente meno dirigista e astratto di come appare oggi.

L'Unione del lavoro oggi si affida a direttive sull'orario, sulla sicurezza, sui permessi di soggiorno. È, in sostanza, marginale. Così come risultano marginali gli effetti, almeno per ora in Italia, del primo sforzo concreto indirizzato alla creazione di opportunità per i giovani. L'operazione Youth guarantee (1,5 miliardi per l'Italia) ha ottenuto 200mila curricula da segnalare, ma meno di 50mila sono stati finalizzati a un colloquio di lavoro o di formazione. Migliore – come è spiegato a pagina 15 – la performance del Fondo europeo di sviluppo regionale con cui sono stati creati 600mila posti di lavoro in un quinquennio.
In ogni caso, per un mercato del lavoro sempre più stratificato e diseguale, nonché fonte di diseguaglianza sociale, un orizzonte di armonizzazione europea potrebbe risultare utile ad accelerare quella razionalizzazione oggi faticosamente in atto (si veda, a pagina 7, la drastica diminuzione dei collaboratori a progetto).

Oltre al fiscal compact servirebbe un job compact: l'alternanza scuola-lavoro conosce il miglior esempio nella gestione tedesca dell'apprendistato; il miglior caso di collaborazione pubblico-privato nelle agenzie locali del lavoro (job center) è quello inglese; la più efficace rete di contatto delle persone da collocare sul mercato e da riqualificare è quella danese; il più rapido e produttivo sistema di impiego del personale in esubero in lavori socialmente utili viene dalla Francia; è positiva l'esperienza dei voucher che l'Italia sta sperimentando.

Se l'Europa delle migliori pratiche del lavoro diventasse davvero l'Europa, la discussione tra i leader si dedicherebbe al miglior sistema per far circolare i lavoratori-cittadini europei ben oltre l'esperienza embrionale dell'Erasmus per i giovani universitari. Il dibattito sul rigore e le politiche di bilancio diventerebbe conseguenza (e sarebbe solo ancillare) delle strategie per la creazione di investimenti (industrial compact), unica strada per far scaturire occasioni di occupazione. Non sono le regole che creano il lavoro, ma possono impedire di farlo nascere: se l'Europa si dedicasse di più a disegnare strategie di sviluppo e di contesto favorevole per gli investimenti, anche la rissa nostrana sull'articolo 18 assumerebbe i contorni di una sterile baruffa chiozzotta.

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