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Questo articolo è stato pubblicato il 11 ottobre 2014 alle ore 11:11.
L'ultima modifica è del 11 ottobre 2014 alle ore 09:48.

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Il fisco ha bisogno di un cambio di passo. Deve essere superato l'approccio di un sistema fiscale che continua a essere un ostacolo - anzi, uno dei principali ostacoli - allo sviluppo. E devono essere ridefiniti i modelli che governano le strategie di contrasto all'evasione.
Parlare di un nuovo «patto» tra imprese, professionisti e fisco - come ha fatto ieri Rossella Orlandi, direttore dell'agenzia delle Entrate - significa certamente aver maturato la consapevolezza e la percezione di un malessere sempre più diffuso, sempre più visibile.

E significa al tempo stesso voler mettere le basi per trovare nuove e più adeguate risposte.
È un malessere che ha radici lontane. Che nasce ben prima dei blitz anti-evasione e la cui responsabilità, questo deve essere chiaro, va equamente ripartita tra i governi e l'amministrazione finanziaria, che come sappiamo, ha il compito di applicare le leggi. L'amministrazione, certo, talvolta ci ha messo del suo, appesantendo gli adempimenti o lasciandosi andare a interpretazioni "aggressive", come nel caso dell'assenza di «valide ragioni economiche» che sta alla base di moltissime controversie. Ma, insomma, se questo paese ha un sistema fiscale che non attrae le imprese (anzi, le fa fuggire) o che non facilita le aggregazioni e la crescita dimensionale o, ancora, che non premia chi investe, chi scommette sulla ricerca e sull'innovazione, beh, anche la politica avrà bene le sue responsabilità.

Rossella Orlandi ha coraggiosamente parlato di rivoluzione culturale. E ha certamente ragione, perché serve un approccio diverso al tema dell'evasione. Serve più dialogo con i contribuenti, che significa puntare ancor più sulla fase del contraddittorio (come per altro sostiene la Corte di Cassazione), momento vero per mettere a confronto le ragioni del contribuente e quelle del fisco. Vanno affinati i sistemi di tutoraggio, senza però dare alle imprese la sensazione di avere un "socio" occulto in azienda. Serve un contenzioso che funzioni meglio, nel nome di una reale parità in giudizio tra fisco e contribuenti. Serve un sistema sanzionatorio meno schizofrenico e servono molte altre correzioni di rotta che arriveranno (si spera presto) con i decreti di attuazione della delega fiscale.

Ma a un vero "patto" per lo sviluppo serve molto di più. Serve che la politica, i partiti, il governo capiscano davvero che il livello del prelievo è insostenibile. È insostenibile sia sotto il profilo quantitativo sia in relazione alla qualità dei servizi che i cittadini ricevono dalla pubblica amministrazione. Una pressione fiscale sul Pil che veleggia intorno al 44%; che supera il 50% se il rapporto viene calcolato tenendo conto di chi le tasse le paga effettivamente, escludendo quindi l'economia sommersa; un prelievo reale sulle piccole e medie imprese quasi da record del mondo, con oltre 68 euro su 100 di utili che se ne vanno tra oneri e balzelli: è questa la fotografia che i numeri restituiscono. Sono questi i numeri con cui ogni giorno le imprese e i lavoratori fanno i conti. Il "patto", allora, richiede fiducia reciproca, ma richiede in primo luogo uno sforzo ulteriore.

Deve essere indicato un percorso, vero e credibile, di riduzione del prelievo, sulle imprese così come sulle persone. Che fine hanno fatto, tanto per citare un esempio, i proclami e le leggi che impegnavano i governi a destinare al taglio delle tasse i proventi della lotta all'evasione? Queste sono le ipocrisie che vanno superate. Perché è qui che si incrina il rapporto di fiducia tra stato e cittadini che ora, giustamente, si vuole cercare di ricostruire.

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