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Questo articolo è stato pubblicato il 25 ottobre 2014 alle ore 09:06.
L'ultima modifica è del 25 ottobre 2014 alle ore 10:39.

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Forse è fin troppo ovvia l'immagine dei due Pd: uno in piazza a Roma con la Cgil e l'altro a Firenze con il premier Renzi che è anche segretario dell'intero partito. I giornali stanno già ricamando intorno al dualismo e ancor più lo faranno domattina, dopo aver contato quanti esponenti della minoranza dei democratici avranno manifestato insieme a Susanna Camusso e viceversa quanto innovativi saranno i toni dei renziani in riva all'Arno.

Sono due mondi, è logico. Due mondi che tendono a essere sempre meno conciliabili. Ma una scissione a sinistra del Pd non è affatto verosimile. Non s'intravedono spazi politici per una simile, temeraria operazione. Tanto meno si possono immaginare spazi elettorali. E' vero quello che dicono Bersani e i suoi amici: in piazza con il sindacato ci sarà un pezzo dell'elettorato che ha concorso al 40,8 per cento del voto europeo. Tuttavia è chiaro che questo argomento non abbia alcuna presa sugli stati d'animo del presidente del Consiglio.
Un po' si capisce. Una volta stabilito che la minoranza non ha interesse oggi alla scissione (i casi isolati sono un'altra cosa), che motivo c'è di preoccuparsi? Renzi si limita a esprimere formale "rispetto" verso i manifestanti e a tirare diritto. Del resto, se si fermasse perchè intimorito dalla Cigl, la sua parabola sarebbe conclusa e nulla di ciò che è stato fatto fin qui, nel bene o nel male, avrebbe senso. Infatti il "renzismo" coincide in ultima analisi con la volontà di superare il potere di veto di questo o quel gruppo organizzato: l'autentico grande potere che ha contribuito a tenere in stallo l'Italia.

E' una lettura semplificata del fenomeno politico del momento, ma piuttosto realistica. Il pensiero nemmeno recondito del premier è che le manifestazioni sindacali, quando sono volte a restaurare quel potere di veto, suscitano oggi il disappunto della maggioranza degli elettori e quindi portano acqua al mulino del premier. Basti ricordare la frase beffarda rivolta a D'Alema: «ogni volta che parla, io guadagno tot voti». A maggior ragione, ogni volta che la Camusso va in piazza e minaccia lo sciopero generale (uno sciopero che sarebbe oltremodo politico), il presidente del Consiglio si frega le mani e pensa di raccogliere nuovi consensi in quell'ampia "zona grigia" dove si vincono le elezioni.
Troppo facile, peraltro, sottolineare che il suo commento al raduno sindacal-politico ricalca alla perfezione quello fatto a suo tempo da Berlusconi premier a proposito di una manifestazione oceanica promossa da Cofferati: «Se loro mobilitano tre milioni di persone, noi ci rivolgiamo agli altri 57 che sono restati a casa». Oggi che è arrivata la stagione delle disillusioni, Renzi cita un milione di persone contro 60 a casa.

Non c'è nulla di strano. Il "partito della nazione" di Renzi, riunito alla Leopolda per il quinto anno consecutivo, cercherà i suoi voti ovunque: a sinistra non meno che a destra. Se vincerà, non dovrà più soggiacere ai veti, avendo la forza per respingerli. Ma di qui ad allora basta poco per mettere un piede in fallo. Un eccesso di sicurezza potrebbe essere pericoloso anche per un tipo spavaldo. Il quale a Bruxelles ha accettato un compromesso che costerà all'Italia fra i 4 e i 5 miliardi di euro. Ma a Firenze la presenta come una vittoria, l'inizio della fine dell'Europa tedesca. Può darsi persino che abbia ragione. La fantasia al potere.

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