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Questo articolo è stato pubblicato il 28 ottobre 2014 alle ore 07:23.
L'ultima modifica è del 28 ottobre 2014 alle ore 07:50.

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Gli stress test della Bce raggiungono un risultato quasi paradossale: se da un lato sono stati eseguiti per rafforzare le banche in modo da permettere loro di tornare a erogare credito, dall'altro penalizzano proprio quelle che più si sforzano di sostenere le imprese.

Iparametri su cui sono stati tarati gli stress test, a giudicare dai risultati, sembrano battere più duro sull'economia reale che sulla finanza. Se l'Italia esce sconfitta rispetto ad altri Paesi, è anche (non solo, ovvio) per questo: le nostre banche hanno la "colpa" di essere troppo esposte su un'economia reale che si deteriora. Se Paesi come la Germania escono vittoriosi, invece, è per il motivo opposto: l'economia è ben più forte di quella italiana – il che costituisce un indubbio vantaggio –, ma soprattutto le grandi banche tedesche sono poco esposte sull'economia reale e molto più sui mercati finanziari.

I risultati comunicati dalla Bce domenica, infatti, sono in parte influenzati dalla scelta e dal peso dei parametri. Quando la Bce e l'Eba hanno immaginato lo scenario avverso su cui testare la sopportazione dei bilanci bancari, hanno ipotizzato un marcato calo del Pil (-6,1% per l'Italia nel triennio 2014-2016, -7,6% per la Germania e -6% per la Francia), un aumento della disoccupazione, un drastico calo dei prezzi degli immobili, una riduzione dell'inflazione. Questo ha avuto un impatto negativo, negli stress test, sul portafoglio crediti delle banche. Gli "esami sotto sforzo" hanno certamente tenuto in conto anche parametri finanziari, ma su questo fronte lo "stress" è stato minore: anche nello scenario avverso, infatti, le banche europee sul fronte della finanza avrebbero addirittura ben 6 miliardi di ricavi.

Questo, inevitabilmente, ha condizionato i risultati finali. Perché le banche di certi paesi sono più sbilanciate sull'economia reale e quelle di altri Stati più sui mercati. Secondo i dati di R&S Mediobanca, relativi ai bilanci 2013, le banche italiane, spagnole e dei Paesi bassi sono le più impegnate a sostenere l'economia reale: i crediti verso la clientela sono pari al 56,3% del totale attivo per le principali banche italiane, al 58,4% per le spagnole e al 58,2% per le olandesi. Per intenderci: per ogni 100 euro impiegato dalle italiane, nonostante il credit crunch degli ultimi anni, 56 sono stati utilizzati per erogare credito a famiglie e imprese. Ovvio che se si ipotizza una nuova pesante recessione, dopo quella già vissuta, queste sono le banche che soffrono di più: sicuramente più delle tedesche (che hanno crediti alla clientela pari al 30,5% dell'attivo), delle francesi (36,1%) o delle inglesi (44,4%).

Peccato che le banche tedesche e francesi siano piene zeppe di derivati: le big in Germania ne hanno per il 26,7% del totale attivo e quelle francesi per il 15,5%, mentre le italiane si fermano al 6,6%. Peccato che la maggior parte di questi derivati (l'89,9% in Germania) sia utilizzata per fare "trading" e non per fini di copertura dei rischi. Peccato, inoltre, che le banche tedesche e francesi siano ancora piene di titoli "tossici", quelli impossibili da valutare perché non hanno alcun valore di mercato: ammontano al 48% del patrimonio netto tangibile in Germania e al 27% in Francia, contro il 16,7% in Italia. Tutta questa finanza nei bilanci cambia in maniera sensibile il totale degli «attivi ponderati per i rischi» (Rwa), cioè il parametro chiave su cui si calcola il fabbisogno di capitale: le banche tedesche riescono a ridurli artificialmente più delle italiane perché la finanza pesa meno dell'economia reale nei bilanci (non solo negli stress test). Dunque riescono ad avere un livello di solidità patrimoniale più elevato.

E la differenza si vede bene guardando le singole banche. Le tedesche (Landesbank comprese) hanno tutte superato gli esami. Anche la traballante Commerzbank, la seconda banca tedesca che per stare in piedi ha dovuto chiedere pesantemente aiuto allo Stato tedesco e ha fatto un aumento di capitale a maggio. I crediti sono meno della metà dell'attivo di bilancio. Il resto è trading finanziario. È poco più piccola come totale di bilancio di Intesa Sanpaolo ma le bastano poco più di 25 miliardi di capitale per superare gli stress test, quando Intesa aveva a fine 2013 capitale netto tangibile per 37 miliardi. Il colosso francese Societé Générale ha un bilancio doppio (1.141 miliardi) di Intesa Sanpaolo, ma ha prestiti all'economia per solo il 29% del bilancio contro il 52% di Intesa. Il resto – circa 800 miliardi – sono attività finanziare: titoli, derivati e quanto altro. SocGen si è presentata agli esami (superati) con soli 37 miliardi di capitale primario.

Intesa che paga l'esposizione doppia all'economia reale, pur avendo un bilancio che è la metà della francese ha bisogno degli stessi livelli di patrimonio per superare gli esami sotto sforzo. E che dire delle banche inglesi che pur sono fuori dall'euro? Tutte promosse, anche quella Royal Bank of Scotland che ha costretto il Governo britannico alla sua nazionalizzazione pena il default. La banca inglese (che ha cumulato perdite per 45 miliardi di sterline dal crac Lehman) stava in piedi con solo 56 miliardi di euro di capitale netto tangibile (dati R&S Mediobanca di fine 2013) su un attivo totale di bilancio che vale 1.232 miliardi. Siamo a poco più del 4% di capitale a garanzia della solidità finanziaria della banca che più ha patito la crisi.
Qual è il punto di forza della banca? Ha crediti per soli 530 miliardi, poco più di UniCredit che ha un bilancio totale più piccolo di oltre il 30%. E che deve supplire alla sua esposizione a famiglie e imprese dovendo mettere in cascina (in proporzione) molto più capitale della banca inglese.

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