Storia dell'articolo
Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 29 ottobre 2014 alle ore 07:11.
L'ultima modifica è del 29 ottobre 2014 alle ore 07:16.

My24

La corsa alla crescita nell'eurozona oggi assomiglia molto a una maratona dalle regole bizzarre: chi corre in scioltezza, sia pure con magari un po' di artrosi in alcune articolazioni, si cimenta a fianco di chi invece si affanna per tenergli dietro con le palle di ferro ai piedi. Il vincitore è scontato in partenza e, ovviamente, è sempre lo stesso.
Da quando è scoppiata la grande crisi, finanziaria prima e poi economica, è stato presto evidente che per un Paese come l'Italia e la sua industria manifatturiera competere con la Germania e le sue aziende, in grado di finanziarsi sui mercati a tassi zero o giù di lì, rappresentava un handicap competitivo non irrilevante, assimilabile nel mercato unico europeo a una pesante distorsione di concorrenza.

L'Italia paga lo scotto dei suoi vizi, è il ritornello ricorrente a Bruxelles e dintorni. Altissimo debito pubblico, Stato inefficiente, mercato del lavoro rigido, scuola che non funziona, ricerca e innovazione più o meno al palo. Insomma c'è poco da lamentarsi, il Paese subisce quel che si merita. E, per recuperare, la solita ricetta europea scolpita nei vari patti di stabilità: rigore nei conti pubblici e riforme strutturali.
Giudizio severo ma ineccepibile a prima vista. La strada maestra indicata, del resto, ai tempi dell'euro e della competizione globale è dolorosa ma perfettamente conforme all'interesse nazionale, prima che europeo.

Se però si gratta un po' sotto la superficie delle regole e dell'ortodossia ufficiale, i dubbi crescono insieme all'inventario delle divergenze che continuano a procurare vantaggi ad alcuni e nuovi handicap ad altri, con i soliti effetti distorsivi sull'esito della gara europea. Che, alla prova dei fatti, non si combatte ad armi pari. Ma impari.
L'Unione bancaria, che partirà il 4 novembre, almeno sulla carta avrebbe dovuto sanare con il tempo la frammentazione del mercato finanziario europeo, iniettarvi fiducia e più trasparenza creando un "level playing field" e rimettendo così in moto l'economia reale che invece di questi tempi tende spesso a morire di sete davanti al pozzo della liquidità, cui non attinge soprattutto laddove ce ne sarebbe più bisogno.

Invece, per le solite resistenze tedesche, nascerà asimmetrica. La vigilanza europea si limiterà a sorvegliare le 120 banche sistemiche (oltre l'80% dell'attività continentale). Il resto, le banche più piccole, casse di risparmio e cooperative – in tutto 3.532, concentrate in Germania, Austria e Italia – resterà sotto la vigilanza nazionale. Circa la metà, 1.697 per l'esattezza, sono quegli istituti regionali e locali tedeschi dai bilanci spesso opachi, legati a doppio filo alla politica e compiacenti rubinetti di credito alle imprese.
A questa grossa imperfezione di partenza si aggiunge l'anomalia del fischio d'inizio, cioè le modalità di valutazione della qualità degli attivi e degli stress test. Non solo le fotografie sono state scattate in momenti diversi dei vari processi di ristrutturazione, ovviamente con esiti diversi, ma paradossalmente, proprio quando il rilancio della crescita economica dovrebbe essere a tutti i livelli la priorità delle priorità in Europa, sono state più penalizzate nel giudizio le banche tradizionali, che fanno credito all'economia reale, rispetto a quelle d'affari che privilegiano finanza e derivati.

Come per caso le più esposte della prima categoria si trovano in Italia (56,2% dell'attivo totale), Spagna e Olanda. Contro il 30,5% in Germania e il 36% in Francia. I derivati nelle grandi banche tedesche rappresentano quasi il 27% dell'attivo. Nella serie infinita delle incongruenze strutturali europee rientrano anche gli aiuti pubblici: una montagna da quasi 250 miliardi alle banche tedesche, un topolino da 4 alle italiane.
Si dirà che se i tedeschi fanno le regole europee a misura dei loro interessi nazionali, possono generosamente foraggiare le loro imprese con enormi aiuti pubblici e finanziamenti a buon mercato il merito è della loro politica di bilancio sana e delle riforme fatte a tempo debito, non in tempi di recessione. Vero. Però se la partita si fa in Europa, che non è la Germania ma soltanto una sua parte, non la si può giocare con le carte truccate. Certo, la colpa è di chi lascia fare, di chi, come l'Italia, troppo spesso disdegna i tavoli tecnici di Bruxelles dove si disegnano quelle carte e poi ha anche il coraggio di lamentarsi. Resta che reiterando confronti e scontri ineguali si approfondiscono le divergenze, non si costruisce convergenza virtuosa. E senza convergenza economica non si fa Europa, la si spezza. Figuriamoci la crescita.

Commenta la notizia

Shopping24

Dai nostri archivi