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Questo articolo è stato pubblicato il 18 novembre 2014 alle ore 08:04.
L'ultima modifica è del 18 novembre 2014 alle ore 10:33.
Il piano anti-dissesto idrogeologico dovrebbe essere - non da oggi, ma da anni - l'espressione dell'azione lunga e costante di manutenzione con cui lo Stato si prende cura del territorio e invece è stato e resta l'espressione massima del caos istituzionale in cui versa lo Stato italiano dalla riforma del titolo V.
Avremmo bisogno di un fondo unico a risorse costanti negli anni, competenze straordinarie alle Regioni e poteri sostitutivi (anche di revoca delle risorse) allo Stato, progetti esecutivi, esclusione dal patto di stabilità. Abbiamo, invece, un minestrone di inefficienze che segna il massimo di distanza fra politica e cittadini.
Il passato recente è segnato da sovrapposizioni e polverizzazione di competenze, conflitti insensati fra governo e regioni, soggetti con grandi responsabilità ma poteri scarsi: significativa su tutti e tre questi fronti, la storia dei commissari straordinari nominati dal Governo negli anni scorsi per superare le inerzie locali ma bloccati nella loro attività dal mancato passaggio di poteri e carte da parte delle Regioni. Ma non è tutto qui.
C'è frammentazione e disordine programmatorio senza una volontà o un disegno strategico o una regìa unitari, progetti inesistenti e sempre rinviati. C'è un caos alimentato dalla volontà di non decidere: anche quando non si è intervenuti a far rispettare i vincoli idrogeologici previsti dalla pianificazione territoriale. C'è l'onnipresente patto di stabilità interno, longa manus di una politica rigorista voluta da Bruxelles ma in cui hanno sguazzato i ministri dell'Economia contenti di programmare opere destinate solo a creare residui passivi.
Un cambiamento si è visto negli ultimi mesi. Anzitutto perché il livello e il ritmo delle tragedie si è fatto insostenibile. In secondo luogo perché il governo Renzi ha posto subito il dissesto idrogeologico tra le priorità su cui intervenire - l'altra è l'edilizia scolastica - e, consapevole del disordine istituzionale, ha creato a Palazzo Chigi una unità di missione che suona come commissariamento più che come coordinamento. È stato avviato un percorso di cambiamento ma il cammino è lungo e le resistenze molte. Vediamo cosa si dovrebbe fare e cosa si è cominciato a fare.
Le competenze regionali. Con la nomina dei presidenti delle Regioni a commissari di governo si è accorciata la catena di comando e dovrebbe essere superata l'impasse che nasceva dal conflitto fra governo e regioni. Resta l'accentramento di poteri in un commissario straordinario ma questi poteri non creano più dualismo con le competenze regionali. Ora i commissari dovranno superare la prova dei rapporti con gli enti locali: bisognerà capire se i commissari-governatori agiranno in caso di inerzia di sindaci e amministratori locali. Vanno rafforzati i poteri sostitutivi centrali e regionali: revoca delle risorse per chi non spende e commissariamenti per chi non fa progettazioni e appalti.
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